Un gruppo di migranti attende di essere trasportato a bordo della nave Sea Watch 3 in acque internazionali a nord della Libia (febbraio 2020). Foto di Valerio Muscella
Un gruppo di migranti attende di essere trasportato a bordo della nave Sea Watch 3 in acque internazionali a nord della Libia (febbraio 2020). Foto di Valerio Muscella

I diritti calpestati dei migranti

Capire i dati, ripensare il linguaggio e le categorie tradizionali: azioni necessarie per andare oltre gli stereotipi sulle migrazioni, che hanno portato alla progressiva criminalizzazione del diritto umano alla mobilità

Monica Massari

Monica MassariProfessoressa associata di Sociologia dell’università di Milano

8 luglio 2020

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Negli ultimi 25 anni il discorso politico sulle migrazioni ha risentito in maniera crescente di stereotipi e pregiudizi. L’informazione pubblica ha continuato a fare riferimento a dati parziali e decontestualizzati, mentre un certo uso degradato del linguaggio e delle immagini ci ha assuefatti nei confronti di visioni stereotipate di donne e uomini migranti.

A livello politico, la cosiddetta crisi dei rifugiati del 2015 ha avuto come conseguenza un ulteriore rafforzamento del processo di esternalizzazione delle frontiere europee – con Paesi come la Libia e la Turchia eletti a guardiani dei canali di accesso che conducono in Europa - e un repentino ritorno a una concezione nazionalistica delle politiche migratorie a seconda degli interessi e delle priorità dei vari governi. Il risultato è stata la progressiva criminalizzazione del diritto umano alla mobilità, visto che le possibilità di migrare legalmente verso l’Europa sono state di fatto praticamente annullate.

"Molti che camminano" è il dossier del terzo numero de lavialibera

Capire i dati

Secondo l’ultimo World migration report dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) delle Nazioni Unite, nel 2019 i migranti a livello globale erano 272 milioni. La cifra può sembrare enorme se si pensa che nel 2000 erano 174 milioni; se però rapportiamo il dato alla crescita della popolazione mondiale (stimata oggi in 7,7 miliardi di persone), la quota di migranti è di appena il 3,5 per cento. Una percentuale che è rimasta più o meno stabile negli ultimi anni o è comunque cresciuta di poco (nel 2000 era il 2,8 per cento).

Nel 2019 il numero dei profughi ha raggiunto quota 74,5 milioni: una cifra quasi raddoppiata rispetto al 2010. A differenza del passato, molti di loro non riescono più a rifarsi una vita

Sebbene la stragrande maggioranza continui a migrare per motivi legati alla ricerca di lavoro, allo studio o a ricongiungimenti familiari, negli ultimi anni stiamo assistendo a un numero crescente di migranti forzati: ben 79,5 milioni nel mondo. Una categoria che racchiude al suo interno uomini e donne costretti a migrare a causa di conflitti, persecuzioni, fame, siccità e, in misura maggiore negli ultimi anni, disastri ambientali e condizioni climatiche avverse. Tra questi, 45,7 milioni sono sfollati interni, ovvero persone costrette a spostarsi all’interno del proprio Paese. Si contano, poi, 29,6 milioni di rifugiati e 4,2 milioni di richiedenti asilo, in attesa di protezione internazionale.

Tra i migranti che sono costretti a lasciare il proprio Paese, l’85 per cento rimane nei Paesi del Sud globale, spesso negli Stati più prossimi a quelli di fuga. Il primo Paese di approdo per i rifugiati è la Turchia. Solo il 15 per cento di essi raggiunge il Nord globale, tra cui l’Europa: e qui il primo Paese ospitante è la Germania, con oltre un milione di rifugiati.

Ripensare le categorie tradizionali

"Le tradizionali categorie di definizione dei migranti (economici, rifugiati, richiedenti asilo), sebbene ancora largamente utilizzate, si stanno rilevando sempre più inadeguate"

Sebbene le tradizionali categorie di definizione dei migranti (economici, rifugiati, richiedenti asilo) siano ancora largamente utilizzate, esse si stanno rilevando sempre più inadeguate. Quello che emerge al di là dei dati, attraverso le interviste ai protagonisti di questi viaggi e le indagini in profondità, è la presenza di un insieme ampio e variegato di persone costrette a utilizzare le stesse modalità irregolari di viaggio, indipendentemente dalle motivazioni che le hanno condotte a lasciare il proprio Paese. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di percorrere canali informali, rotte parallele estremamente pericolose, e di rivolgersi a intermediari spesso legati a organizzazioni criminali.

Se guardiamo in particolare alla rotta del Mediterraneo centrale – ad oggi la più letale a livello globale, con un tasso di mortalità più che raddoppiato negli ultimi cinque anni –, dopo l’attraversamento del Sahara, in Libia si ritrovano a convivere nelle medesime condizioni, alla mercé di bande criminali, poliziotti corrotti e milizie, migranti con storie molto diverse. Nei centri di detenzione libici, dove la situazione è fuori controllo, ritroviamo richiedenti asilo, rifugiati, donne vittime di tratta, migranti economici, lavoratori stagionali: una moltitudine di persone accomunate dall’impossibilità a poter migrare regolarmente, oggetto di ricatto e obbligate a subire condizioni di trattamento drammatiche, fino alla tortura.

Se riescono a sopravvivere all’attraversamento del Mediterraneo, giunti in Europa, sono persone spesso profondamente cambiate rispetto alle motivazioni originarie che le avevano spinte a partire. Le esperienze difficili di cui sono state protagoniste durante il percorso mutano sensibilmente la loro condizione esistenziale, rendendo impossibile una loro definizione secondo le categorie tradizionali (rifugiati o migranti economici). Queste ultime, spesso utilizzate in maniera arbitraria e discriminatoria dalla politica, andrebbero dunque ripensate alla luce delle esperienze di vita concrete di questi uomini e queste donne.

La criminalizzazione delle migrazioni

All’origine della necessità di utilizzare canali considerati illegali ed estremamente pericolosi vi sono le politiche sempre più restrittive adottate in Europa negli ultimi dieci anni: ad oggi è praticamente impossibile giungere legalmente nel continente alla ricerca di un lavoro. Una situazione che in Italia si è palesata in questa fase di emergenza sanitaria con il timido tentativo di regolarizzare i braccianti agricoli.

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Ciò che negli anni è stato reso illegale è l’aspirazione stessa delle persone a cercare condizioni di vita migliori per sé e per le proprie famiglie. Un diritto che l’antropologo Arjun Appadurai considera fondamentale in un mondo globalizzato che ha concesso a tutti la possibilità di immaginare e aspirare a una vita diversa, più ricca di opportunità. Essendo il diritto alla mobilità una concreta espressione di questa aspirazione, esso deve essere reso accessibile al maggior numero di persone.

La crisi del 2015

La crisi del 2015 non è stata la crisi dei rifugiati, bensì la crisi del sistema di accoglienza europeo, dell’idea stessa di Europa e dei suoi valori

In Europa il processo di crescente illegalizzazione dei migranti è stato ulteriormente aggravato nel 2015 dalla cosiddetta crisi dei rifugiati. Per la prima volta abbiamo assistito all’arrivo di oltre un milione di persone in cerca di rifugio e asilo, per la maggior parte provenienti da Paesi in guerra come la Siria, dove il conflitto che perdura dal 2011 è considerato dall’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) la principale causa di migrazione forzata a livello mondiale. Il numero di migranti giunto in Europa nel 2015 è alto, ma costituisce soltanto una piccola percentuale se paragonato alla popolazione dell’Ue, calcolata in quasi 450 milioni di abitanti. Dunque, la crisi del 2015 non è stata la crisi dei rifugiati, bensì la crisi del sistema di accoglienza europeo – più incline a rifiutare politiche di solidarietà e di condivisione delle responsabilità comuni in nome di una realpolitik orientata a soddisfare istanze prettamente nazionali – e, più in profondità, dell’idea stessa di Europa e dei suoi valori. Pur a fronte dell’esistenza di un sistema comune di asilo, ogni Paese ha rivendicato il proprio diritto a gestire il fenomeno in maniera autonoma. Ne sono derivati una politica europea totalmente atomizzata e il drammatico ritorno dei simboli più tetri e nefasti dei passati regimi totalitari: posti di blocco alle frontiere, muri e fili spinati dotati di lamette rivolte all’esterno.

L’esternalizzazione delle frontiere europee

L’eredità peggiore della cosiddetta crisi dei rifugiati è stata però lo scellerato accordo del marzo 2016 tra l’Ue e la Turchia per fermare l’arrivo dei migranti in Europa lungo la rotta balcanica. Un accordo costato 6 miliardi di euro – utilizzati poi dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan in maniera strumentale per esercitare il proprio ruolo geopolitico in tutta l’area – con cui l’Unione ha demandato un ruolo così importante come la gestione delle proprie frontiere a un Paese autoritario dove da anni si registrano gravissime violazioni dei diritti umani.

All’accordo con la Turchia è seguito poi il Memorandum d’intesa tra Italia e Libia siglato nel febbraio 2017 per fermare l’arrivo dei migranti via mare. L’accordo è stato firmato con un Paese travolto dalla guerra civile, che non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e che non poteva offrire alcuna garanzia di affidabilità. Quell’accordo, rinnovato per altri tre anni lo scorso febbraio, è servito tra le altre cose a formare la guardia costiera libica responsabile dell’affondamento di imbarcazioni di migranti, dell’utilizzo di armi da fuoco, di operazioni di trasbordo in mare estremamente pericolose e violente. Alla guardia costiera libica, i cui funzionari sono risultati in più casi implicati nel traffico di esseri umani, si deve la gran parte delle operazioni illegali di respingimento in mare. Per non parlare di come il memorandum abbia contribuito alla costruzione di centri di detenzione sotto il controllo del ministero degli Interni libico, al cui interno vengono puntualmente riscontrate forme di abuso e violenza intollerabili.

Le parole sono importanti

Il risultato dell’irresponsabilità politica dell’Ue è visibile nel fatto che il Mediterraneo sia oggi divenuto un immenso cimitero sottomarino. Di fronte a questa tragedia, abbiamo assistito a un progressivo stato di assuefazione da parte dell’opinione pubblica: abbiamo lasciato che le immagini dell’ennesimo naufragio ci giungessero senza porvi alcuna attenzione, imparato a digerirle guardando a quei corpi e a quei volti come se si trattasse di masse informi e indistinte; abbiamo attuato una deumanizzazione dei migranti e di noi stessi, incapaci di provare alcun sentimento di umana pietà e compassione, nel senso più autentico del termine (cum patire, ovvero soffrire insieme). Questa sorta di anestesia culturale generalizzata è stata ben definita da Papa Francesco come “globalizzazione dell’indifferenza”.

"Parliamo di flussi migratori utilizzando un’immagine idraulica; impieghiamo espressioni come push e pull factor senza riconoscere che queste persone si imbarcano in una traversata mortale ben consapevoli dei rischi a cui andranno incontro, ma disposti a tutto pur di fuggire"

Anche il nostro linguaggio si è trasformato: parliamo di “flussi migratori” utilizzando un’immagine idraulica; impieghiamo espressioni come “push e pull factor” senza riconoscere che queste persone si imbarcano in una traversata mortale ben consapevoli dei rischi a cui andranno incontro, ma disposti a tutto pur di fuggire.

La costruzione della figura dello straniero continua a risentire in Italia di un’eredità ingombrante che viene da lontano – dal nostro passato irrisolto legato ai crimini coloniali e fascisti – che ha creato un filtro di strisciante razzismo che si frappone tra noi e gli altri. Come è emerso nel recente dibattito sulla regolarizzazione dei braccianti – di nuovo, il migrante visto non come persona, ma bracciante, sono solo le sue braccia a contare – lo straniero è tollerabile solo se disponibile a un’integrazione subalterna, funzionale e utilitaristica a seconda delle nostre necessità, in questo caso la produzione agricola.

Le conseguenze di questo processo si fanno sentire a un livello profondo. Retorica umanitaria e discorso securitario sono nuovamente le uniche parole-chiave attorno a cui sembra declinarsi il discorso pubblico sulle migrazioni. Il clima di insensibilità collettiva dilagante nei confronti dello spettacolo dell’orrore che si va consumando lungo le aree di confine e, soprattutto, nel Mediterraneo, ci impedisce di guardare alla vita di queste persone e alle forme eroiche di resistenza che mettono in atto quotidianamente.

Per queste ragioni, se l’Unione Europea vuole continuare a considerarsi tale, è necessario innescare il prima possibile un processo di radicale ripensamento del diritto alla mobilità umana. Un’Europa che voglia continuare a definirsi patria dei diritti umani non può abdicare ai propri doveri e assumere l’atteggiamento di irresponsabilità organizzata a cui abbiamo assistito e stiamo assistendo a partire dalla cosiddetta crisi del 2015. Migrare è un diritto umano che non può più essere negato, reso illegale né tantomeno criminalizzato.

Da lavialibera n° 3 maggio/giugno 2020

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