Asso Ventinove, dell'armatore Augusta Offshore
Asso Ventinove, dell'armatore Augusta Offshore

Respingimenti in Libia, Asso Ventinove a processo

Per la prima volta una società privata è chiamata a rispondere della possibile violazione di norme nazionali e internazionali che tutelano i diritti fondamentali dell'uomo

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoRedattrice lavialibera

15 febbraio 2021

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È la notte del 30 giugno del 2018, quando un gommone con a bordo 150 persone lascia il porto di Al Khums (Homs), nel tentativo di fuggire dalla Libia. Faranno ritorno a Tripoli il 2 luglio 2018 su un'imbarcazione italiana, la Asso Ventinove della società Augusta Offshore. Una volta trasferiti a terra, verranno arbitrariamente carcerati nei centri di detenzione del Paese: lager in cui le condizioni di vita sono disumane e le torture una prassi. Quattro vittime di quel respingimento, che sono poi riuscite ad arrivare in Europa, hanno ottenuto protezione internazionale. E in cinque oggi portano a processo governo italiano, armatore e capitano della nave per avergli negato il diritto d'asilo. Un'azione civile diretta a ottenere un risarcimento danni, ma che rappresenta un unicum perché per la prima volta coinvolge soggetti privati (il capitano della nave e l'armatore), e ha un respiro più ampio.

"Se la sentenza dovesse dichiarare un'incompatibilità con le norme che tutelano i diritti umani, si stabilirà il principio per cui anche i privati sono responsabili dei respingimenti se si prestano a queste operazioni" Luca Saltalamacchia - Asgi

"Per arrivare alla pronuncia della condanna, il giudice dovrà stabilire se la condotta di governo, armatore e capitano è stata compatibile con le norme nazionali e internazionali che tutelano i diritti fondamentali", spiega Luca Saltalamacchia, avvocato dell'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione (Asgi), che sta sostenendo la causa insieme ad Amnesty international Italia. "Se la sentenza dovesse dichiarare un'incompatibilità, si stabilirà il principio per cui anche i privati sono responsabili dei respingimenti se si prestano a queste operazioni". Un principio importante visto che sempre più attori, di diversa natura e con diversi interessi, sono coinvolti nella cosiddetta politica di esternalizzazione delle frontiere portata avanti dall'Italia e dall'Unione europea. 

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I fatti

Che cos'è successo in quei giorni a cavallo tra giugno e luglio 2018? Secondo quanto ricostruito dai legali attraverso fonti ufficiali e il tracciato delle navi, il gommone su cui viaggiano i 150 migranti – provenienti per lo più da Eritrea, Etiopia e Sudan – ha problemi qualche ora dopo la partenza e chiede soccorso alle autorità italiane, segnalando la propria posizione. A raggiungere l'imbarcazione è una motovedetta libica di nome Zwara, che carica a bordo i naufraghi. Ma le condizioni meteo peggiorano e la Zwara, già colma di persone per via di una precedente operazione, viene costretta a fermarsi. È a questo punto che sarebbe intervenuta la Marina militare italiana di stanza a Tripoli, chiedendo alla nave Asso Ventinove di soccorrere la motovedetta libica. La nave privata, che in quel momento era in viaggio verso la piattaforma petrolifera Bouri Field, si attiene alle istruzioni: raggiunge la Zwara, ne preleva gli oltre 200 passeggeri e si mette in viaggio verso Tripoli, trascinando la motovedetta a rimorchio, mentre un ufficiale libico fa credere ai migranti che se non protesteranno saranno portati in Italia

Le autorità militari italiane negano un coinvolgimento nelle operazioni. Ma il diario di bordo della Asso Ventinove mostra che sono state loro a coordinare tutto

Un'operazione in cui le autorità militari del nostro Paese, presenti sul posto anche con la nave Duilio, negano qualsiasi coinvolgimento anche se il diario di bordo della Asso Ventinove mostra che sono state proprio loro a coordinare tutto "nonostante la piena consapevolezza degli abusi e delle violazioni sistematiche che avvengono nei centri di detenzione libici e del rischio di respingimento negli Stati di origine", attacca Asgi. Una volta raggiunta la costa libica, la Asso Ventinove si ferma al largo del porto di Tripoli e i migranti vengono trasferiti a terra su piccole imbarcazioni. "Sul molo le persone sbarcate incontrano il personale dell'Organizzazioni internazionale per le migrazioni (Oim), che le identifica", racconta la legale Giulia Crescini, precisando che Oim non ha mai risposto alle richieste di informazioni dell'Asgi. I naufraghi sono poi trasferiti nei centri di detenzione, dove vivranno per mesi in condizioni disumane. "I cinque cittadini eritrei che oggi presentano causa, e che in quanto Eritrei hanno diritto al riconoscimento della protezione internazionale, sono stati intervistati dall'Alto commissariato delle nazioni unite per i diritti dei rifugiati che tuttavia non ha mai segnalato le loro storie", conclude Crescini. Tra loro, una donna incinta che nonostante l'avanzato stato di gravidanza è stata detenuta, portata in ospedale solo per il parto, e poi nuovamente imprigionata con il neonato. Abbiamo saputo della loro esistenza, e del respingimento, grazie al lavoro di un'attivista, Sara Fratini, che è riuscita a rintracciare circa la metà dei naufraghi: dell'altra metà non sappiamo ancora le sorti

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I diritti violati

Con la loro condotta, lo Stato italiano, l'armatore e il capitano della Asso Ventinove avrebbero violato molte norme di diritto interno, internazionale e comunitario. In primo luogo il respingimento ha determinato l'impossibilità per i cittadini stranieri di chiedere asilo, un diritto garantito dalla Convenzione di Ginevra e dall'articolo dieci della Costituzione italiana. A ciò si aggiunge la violazione del divieto di respingimenti collettivi, che impedisce il rimpatrio verso uno Stato in cui la persona rischia di subire torture o persecuzioni. Il respingimento ha determinato l'esposizione delle persone coinvolte al rischio di tortura e trattamenti inumani vietata dall’articolo tre della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Infine, le norme internazionali relative al diritto del mare stabiliscono che i soggetti impegnati in un soccorso, in questo caso Stato italiano, armatore e capitano della nave, si liberano della loro responsabilità solo conducendo le persone soccorse in un “luogo sicuro”, cioè dove siano rispettati i loro diritti fondamentali, e Tripoli non lo è. 

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Il contesto politico-economico

L'azione giudiziaria ha rilevanza anche a livello politico perché mina la legittimità del comportamento adottato dall'Italia nel Mediterraneo. Un comportamento che, denuncia Asgi, non è mai cambiato nonostante la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo abbia condannato il nostro Paese nel caso Hirsi Jamaa per un respingimento effettuato nel 2009: i migranti erano stati intercettati in acque internazionali da navi delle autorità italiane, trasbordati a bordo e riportati a Tripoli contro la loro volontà. Al governo c'era Silvio Berlusconi, ma la nuova stagione inaugurata da Marco Minniti con la firma del memorandum Italia-Libia (che prevede finanziamenti, mezzi e formazione a beneficio della cosiddetta Guardia costiera libica) ha alla base la stessa logica di allora: mandare indietro le persone che cercano di attraversare il Mediterraneo.

Nel 2020 sono state circa 10mila le persone riportate nei centri di detenzione in Libia e oltre 1300 quelle respinte al confine italo-sloveno

Il memorandum Italia-Libia ha alla base la stessa logica per cui l'Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani: respingere i migranti che tentano di attraversare il Mediterraneo

In questo quadro svolgono un ruolo sempre più importante anche attori privati, che non hanno come interesse il contenimento dei flussi migratori. "Non è un caso – spiega l'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione – che sia stata una nave dell'Augusta Offshore ad effettuare il respingimento: in quella porzione di mare hanno una importanza capitali i servizi relativi al funzionamento delle piattaforme petrolifere in cui l'italiana Eni ha un ruolo rilevante. Posizionare le politiche di delocalizzazione del confine all'interno di questo quadro e ricordare la dipendenza energetica dell'Italia può aiutarci a comprendere l'inscalfibilità del memorandum e l'intoccabilità dei rapporti con la Libia". 

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