Giuseppe Gatti, magistrato della Direzione nazionale antimafia esperto di mafie foggiane (archivio Narcomafie)
Giuseppe Gatti, magistrato della Direzione nazionale antimafia esperto di mafie foggiane (archivio Narcomafie)

Le mafie foggiane oltre il negazionismo

Decenni di stragi e vittime non sono bastate per considerare la mafia foggiana in tutta la sua pericolosità. Oggi qualche cosa sta cambiando, ma quella nata come "faida dei pastori" ha creato paure, omertà, rassegnazione su tutto il territorio

Giuseppe Gatti

Giuseppe GattiMagistrato

28 giugno 2021

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Dall'archivio di Narcomafie, settembre-dicembre 2017

È importante la conoscenza. Sono contento che Libera stia investendo sulla conoscenza. Le risorse della mafia sono la paura e l’indifferenza, frutto della mancanza di conoscenza. Se tu sai che cosa hai di fronte, forse, hai meno paura. Se tu sai chi hai di fronte, forse, è più difficile fare finta di nulla. La conoscenza è importante; ma come si forma? Secondo me, si forma con la condivisione. Non c’è un meccanismo verticale nella vera conoscenza. La conoscenza è incontro, condivisione, relazione, dialogo. Per cui, anche in questo momento, in cui vi consegno alcune riflessioni sulla mafia foggiana, vorrei condivisione, vorrei feedback con il vostro contributo, perché si cresce solo se condividiamo le esperienze, nella convinzione che ciascuno di noi ha dalla propria un pezzettino di storia da raccontare, ma che deve necessariamente intrecciarsi con le storie di tutti.

L’ascesa di Rogoli

Pinuccio Rogoli, "padre" della Sacra corona unita, spiegò ai giudici che la sua non era mafia ma una associazione per difendere i detenuti pugliesi dalle angherie dei camorristi

Dobbiamo abituarci a usare i termini giusti. Quando si parla di mafia nel territorio pugliese penso si debba parlare di “mafie pugliesi”. La Sacra corona unita è un fenomeno che, se pur in un progetto originario voleva abbracciare tutta la Puglia, di fatto, ha trovato spazio solo nelle provincie di Brindisi, Lecce e Taranto. In Puglia la mafia è un fenomeno – fortunatamente – d’importazione. Nasce negli anni Cinquanta – periodo in cui avviene la prima contaminazione – con il soggiorno obbligato dei mafiosi appartenenti a Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra e prosegue poi negli anni 70-80 con la deportazione di questo tipo di detenuti nelle carceri pugliesi. La suggestione dei ritualismi mafiosi affascina i pugliesi che iniziano così a “scimmiottare” quelle pratiche. Le cose si fanno più serie con Pinuccio Rogoli, che si pone l’obiettivo dichiarato di creare in Puglia un’organizzazione criminale che in qualche modo si contrapponesse alla prepotenza dei camorristi napoletani. Quindi nasce il progetto della Sacra corona unita. Un progetto che, però, nelle province baresi e foggiane fallisce molto velocemente. L’anno che ne sancisce la fine è il 1986. A Bari è Rogoli che ci mette del suo, perché nel processo alla Camorra pugliese decide di rendere dichiarazioni davanti al giudice, per dire che la sua non era mafia ma una associazione che serviva a difendere i detenuti pugliesi dalle angherie dei camorristi. Rogoli, però, fa una cosa sbagliata nella logica mafiosa: anche se non si pente, accetta l’interazione con lo Stato. Questo è sufficiente per violare il dovere di omertà: dal punto di vista del codice mafioso egli è delegittimato. Da quel momento in poi il suo nome va sempre più al ribasso in terra di Bari. È sempre il 1986.

Il direttore della Dia a Foggia: "Oggi è come Palermo dopo le stragi di Cosa nostra"

La strage del Bacardi

In quell’anno anche a Foggia la Sacra corona unita chiude la sua breve corsa. In questo caso a decretare la sua fine interviene, purtroppo, un bagno si sangue, noto alle cronache come la cosiddetta “strage” del Bacardi. È il primo maggio del 1986 quando l’ultima propaggine del clan Laviano (quella che portava avanti il progetto unitario Rogoli) viene sterminata da un commando armando a colpi di kalashnikov. Nell’agguato ci sono vittime innocenti. Foggia, quel giorno, ricorda la Chicago degli anni Venti. Da quel momento in poi la storia della mafia barese e della mafia foggiana sarà profondamente diversa da quella scritta dalla Scu nel sud della Puglia.

Mafia barese, mosaico di clan

"Raccontiamo la mafia foggiana da parecchio tempo. Il problema è trovare qualcuno che ascolti"Giuseppe Gatti - Magistrato antimafia

La mafia barese si caratterizzerà nel tempo come una mafia molto geo-referenziata: abbiamo un clan per ogni quartiere, il quale ha proiezioni sulla provincia di Bari, ma non si va oltre. Chiaramente, avendo una distribuzione capillare “clan-quartiere”, abbiamo un numero elevatissimo di clan e questo già la dice lunga. La mafia barese è una mafia levantina, dove la mafia è più il mezzo che il fine. È una mafia caratterizzata da un vincolo che tiene fino a un certo punto: spesso si cambia casacca. Abbiamo un numero di collaboratori di giustizia altissimo; abbiamo avvicendamenti di clan. È una mafia molto fluida; è una mafia anche molto attenta al folclore, alle liturgie, ai ritualismi. Questo è un dato preoccupante perché, giocando sull’emotivo, è una mafia che fa molta presa sulle giovani leve. È una mafia che nel carcere ha il suo habitat ideale, perché proprio in quel contesto svolge la sua attività di proselitismo. Il carcere è il tempio dei battesimi e degli innalzamenti mafiosi, un vero e proprio “luogo di culto” dove i mafiosi adorano celebrare i loro rituali.

La mafia foggiana è tutta un’altra cosa. Fortunatamente adesso stiamo cominciando a volerla conoscere veramente. Veramente noi la raccontiamo da parecchio tempo, il problema però non è solo raccontare ma è anche trovare qualcuno che ti ascolti. Ascoltare non vuol dire soltanto sentire, ma anche aprirsi e lasciare che quelle cose entrino nel cuore e nella mente. Ci sono volute ancora una volta stragi e vittime innocenti per giungere alla ribalta dell’attenzione mediatica. Qualche cosa, però, sta cambiando. Forse oggi qualcuno sta cominciando ad ascoltare. La mafia foggiana nasce alla fine degli anni Settanta, inizio Ottanta. Questo, però, solo da un punto di vista storico-sociologico.

È una mafia molto strutturata, compatta, una mafia capace di fare rete e di creare interconnessioni tra i suoi tre poli (quello foggiano, cerignolano e quello garganico). È una mafia capace di fare rete con le mafie storiche, in particolare con la camorra dei Casalesi e con la ’ndrangheta ed è una mafia capace anche di proiezioni con la criminalità internazionale, soprattutto con le mafie transadriatiche.

Mafia foggiana tra negazionismo e mistificazione

La mafia foggiana nasce alla fine degli anni Settanta, tuttavia il riconoscimento giudiziario arriva molto dopo. Inizialmente si vive una fase di negazionismo, una fase di profonda sottovalutazione della realtà e questo ritardo, come dice Daniela Marcone, ha generato e genera tutt’ora delle conseguenze negative sia sul piano del contrasto giudiziario sia sulla capacità della presa di coscienza della società civile sul fenomeno.

La mafia foggiana viene riconosciuta per la prima volta nel 1994 con la sentenza “Panunzio”. La mafia cerignolana nel 1997, con la sentenza Cartagine: avete mai sentito parlare di questa sentenza? Vi dico questa cosa per dirvi come poco si è voluto capire e sapere. La sentenza “Cartagine” viene emessa 10 anni dopo il maxi processo di Cosa nostra (1987). Si chiude il maxi processo di Cosa nostra con 19 ergastoli. Il processo “Cartagine” si è chiuso con 15 ergastoli, quindi 4 ergastoli meno di Palermo. La storia di Palermo – giustamente – è diventata la storia del nostro Paese, ma la sentenza Cartagine non la conosce nessuno. Questo ci deve far riflettere.

C’era una volta la faida dei pastori

“Avvocato, la mafia è la mia famiglia. Io non ho fatto nessuna affiliazione, nessun battesimo, nessun innalzamento. La mia famiglia è la mafia”Imputato durante un processo

Abbiamo il riconoscimento della mafia garganica nel 2006. Dal 1980 al 2006 la mafia garganica – che è quella che desta oggi il maggior allarme sociale – viene liquidata come faida di pastori, come un problema di abigeato (cioè il furto di bestiame, ndr). Qual è la forza delle mafie di Capitanata? Sono mafie forti perché hanno sviluppato un binomio vincente, coniugando molto bene la tradizione con la modernità. La tradizione della mafia foggiana è quella della ’ndrangheta, quel familismo mafioso. A Foggia il vincolo di mafia e vincolo di sangue sono la stessa cosa. In un processo un avvocato chiedeva a un vecchio collaboratore di ricostruire il proprio rito di affiliazione. Il collaboratore ride e poi pronuncia ad alta voce il cognome della propria famiglia, chiedendo all’avvocato se conoscesse quel nome. Evidentemente lo conoscevamo tutti, perché era il nome di una delle famiglie mafiose più importanti di Foggia. Aggiunge: “Avvocato, la mafia è la mia famiglia. Io non ho fatto nessuna affiliazione, nessun battesimo, nessun innalzamento. La mia famiglia è la mafia”. Questo, in chiave probatoria, è un grosso problema per noi inquirenti, perché quando dobbiamo provare che un soggetto fa parte di quell’organizzazione non abbiamo una cerimonia che ce lo certifica e magari un collaboratore foggiano che poi ce lo racconta nel processo.

Sempre sul familismo mafioso foggiano. C’è stato un processo di mafia garganica terribile, in cui un bambino, a cui avevano ammazzato il padre, viene cresciuto dalla famiglia con il culto della vendetta. La sua missione sarebbe stata quella di sterminare i membri del clan rivale, per vendetta. Crescendo diventerà un killer spietato, con alle spalle un ergastolo e, verosimilmente, una profonda devastazione psicologica. Altro caso tratto da vecchi processi: a Foggia un boss sta invecchiando, il suo problema è gestire “l’eredità”. Non si tratta di denaro, ma di chi investire del ruolo di capo. L’affidamento del bastone del comando all’interno della famiglia mafiosa diventa il lascito ereditario più importante in favore del figlio maschio.

Uno dei principali effetti del familismo mafioso è che non abbiamo più collaboratori di giustizia dal 2007. Questo perché quando qualcuno ci prova ogni tanto a collaborare, tutta la famiglia lo molla e non si tratta di cugini e procugini, ma di mogli e figli che disconoscono i vincoli affettivi più profondi, nel momento in cui il loro congiunto decide di collaborare. Bastano dieci giorni di solitudine a un soggetto che sta maturando un percorso di collaborazione perché quell’uomo crolli. Non perché ha paura dei mafiosi – perché se ha manifestato la volontà di collaborare il salto lo ha fatto – ma proprio perché non regge all’idea di dover perdere i legami affettivi più cari.

La tradizione è anche quella della ferocia spregiudicata della camorra cutoliana, nota per la sua particolare efferatezza. Raffaele Cutolo aveva visto giusto quando decise di creare a Foggia la Nuova camorra pugliese, che sarebbe stata il braccio lungo della Nuova camorra organizzata. Cutolo voleva spostare la rotta dei traffici legati al contrabbando dal Tirreno, dove c’erano i Marsigliesi, all’Adriatico, dove lui poteva giocare in casa. Vedete oggi quanto sia strategico l’Adriatico per il traffico di droga internazionale e per i rapporti con le mafie transadriatiche. Ci sono tonnellate di droghe leggere che arrivano incessantemente sulle coste del Gargano. Non è più il contrabbando, ora è la droga, ma la lucidità di Cutolo la comprendiamo ancora oggi.

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Lupare bianche e cimiteri della mafia

Da uno studio sulle analisi delle autopsie dei morti di mafia nel Gargano, condotto dalla Facoltà di medicina legale dell’Università di Foggia, è emerso che il 90% dei cadaveri non ha più il volto

A proposito della ferocia della mafia foggiana: pensiamo agli imprenditori. Normalmente i mafiosi minacciano gli imprenditori, magari fanno saltare le automobili, danneggiano i negozi. A Foggia gli imprenditori sono ammazzati. Giovanni Panunzio, il costruttore che ha provato a ribellarsi al giogo mafioso, viene trucidato nel 1992. Nel 2011 due imprenditori legati al settore della ricettività turistico-alberghiera di Vieste vengono presi, sequestrati e portati nella foresta umbra. Saranno ammanettati, uccisi e bruciati.

Da uno studio sulle analisi delle autopsie dei morti di mafia nel Gargano, condotto dalla Facoltà di medicina legale dell’Università di Foggia (che ci dà una grossa mano) è emerso che il 90 per cento dei cadaveri non ha più il volto. C’è proprio la prassi, negli omicidi di mafia garganica, di avvicinarsi al cadavere con il fucile a canne mozze ed esplodere un colpo a contatto con il viso per sfiguare i tratti somatici. Questo perché non basta cancellare una vita; bisogna cancellare la memoria di quella vita, perché il controllo del territorio nel foggiano è fatto anche di memoria. Bisogna impedire che i parenti, gli affiliati ne possano ricordare il volto. Nello stesso senso operano i numerosi casi di lupara bianca. Nel 2011 a Zazzano, una bellissima grava della provincia di Foggia, viene trovato quello che sarà definito il cimitero della mafia. Una serie di persone scomparse negli anni 2000 viene ritrovata lì: buttati come se fossero tanti sacchi di immondizia.

Sono queste caratteristiche che hanno consentito a queste mafie di sviluppare un controllo di tipo militare. In questo sono purtroppo pure agevolate dalla morfologia del territorio, perché noi abbiamo una foresta umbra in cui ci sono punti in cui il sole non arriva. Ricordiamo che negli anni Novanta importanti latitanti della ’ndrangheta sono stati nascosti sul Gargano. Questo rende tutto molto più difficile. Abbiamo immense distese di pianura, dove non c’è una casa, solo terreni da coltivare e pomodori da raccogliere (immaginate a questo proposito quanto possa essere diffuso il fenomeno del caporalato). Abbiamo coste estremamente frastagliate, con insenature in cui è facile occultare. Così come le grave che diventano obiettivo preferito dei trafficanti di rifiuti, che lì sversano centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti. Quindi oltre a un controllo militare c’è anche una capacità di controllo legata alla morfologia del territorio.

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La risposta è l’omertà

C’è anche una capacità di controllo legata alla realtà sociale, perché una mafia così è una mafia che nel tempo ha fatto paura e che continua a suscitarne. Questa paura si è paradossalmente strutturata in quella che, Daniela Marcone, chiama rassegnazione; che ora è diventata tolleranza, accettazione, connivenza e, a volte, anche convenienza. Quindi, piano piano, questa omertà è diventata la risposta fisiologica con cui le comunità del foggiano stanno sviluppando il loro adattamento alla presenza mafiosa.

Un esempio. Nel 2010 cerchiamo un latitante nel Gargano, tra i primo 30 ricercati nella lista del Ministero. Vengono i Cacciatori di Sardegna, di Calabria. Si batte il terreno palmo a palmo e non si trova l’uomo. Intanto il latitante scrive alla Gazzetta del mezzogiorno, fa i suoi proclami di innocenza, come se tutto gli fosse possibile. A distanza di tempo, emerge che questa persona, mentre veniva cercata per mari e per monti, nei luoghi più impervi del Gargano, stava tranquillamente festeggiando in un ristorante di Foggia una “prima comunione” con tutta la sua famiglia al seguito, sotto la protezione di un clan foggiano. Noi, di tutta questa storia, per tanto tempo, non abbiamo saputo niente.

Questa paura si è oramai cronicizzata, per cui dall’assoggettamento, si è passati alla dipendenza mafiosa. Oggi a Foggia molti sono portati a ritenere che l’agibilità del proprio percorso esistenziale, familiare, sociale ed economico può essere solo quella garantita dalla protezione mafiosa.

La tassa dei clan

A Foggia l’estorsione diventa un reato in cui la minaccia è molto spesso silente e implicita e si fonda sul condizionamento ambientale

Per questo è normale che il processo estorsivo abbia subìto un profondo cambiamento. Non minaccia più il mafioso, ma è l’imprenditore stesso che gli domanda quanto costi la protezione mafiosa, vera e propria tassa di sovranità. Perché il pizzo diventa proprio questo: una tassa di sovranità, quella che tu paghi per “metterti in regola” e “poter stare tranquillo”. L’estorsione diventa così un reato in cui la minaccia è molto spesso silente e implicita e si fonda sul condizionamento ambientale. Non è facile nei processi riuscire a provare questo tipo di reati, occorrono giudici particolarmente sensibili, perché se valuti le prove facendo ricorso a massime di comune esperienza valide, ad esempio, per realtà come il Trentino Alto Adige o la Valle d’Aosta, l’estorsione qui non la configuri mai.

Divide et impera

Dice Gian Carlo Caselli(cfr. pag 43) che le mafie sono quelle che più di ogni altra organizzazione hanno in sé la capacità di adattarsi al cambiamento. Fa paura l’idea che una mafia così legata alla tradizione come quella foggiana sia stata poi capace di lavorare sulla modernità. La modernità che cos’è? Innanzitutto è pragmatismo. I mafiosi foggiani non fanno le affiliazioni: lo hanno pianificato e se lo sono potuti permettere proprio per quel vincolo familiare particolarmente forte. Hanno poi cercato di “compartimentare” le attività delittuose così, se qualcuno si pente sa soltanto quello che succede con i furti, ma non sa quello che succede, per esempio, nel settore della droga, o quello che succede nel settore delle infiltrazioni. La modernità è anche capacità di saper accettare le sfide della globalizzazione. Che cosa esprime la globalizzazione se non la capacità di creare rete, di vivere in rete e sviluppare interconnessioni? Questa è una mafia delle reti, che sa fare sistema e ce lo dicono le indagini. Con i casalesi avevano deciso di creare una joint venture per contraffare banconote false con carta filigranata sottratta dalle cartiere di Fabriano. Sempre con la Camorra – vi sono molteplici operazioni che lo hanno dimostrato – gestiscono traffici di rifiuti per quantitativi ingentissimi, con sversamento sistematico di “monnezza” della Campania nelle cave foggiane. Ci sono poi le interazioni con la ’ndrangheta per la droga; le interazioni con la criminalità balcanica per quanto riguarda il traffico dei migranti e le interazioni con le mafie straniere per il traffico internazionale di stupefacenti.

Vino, grano e pomodoro: gli asset

È un’organizzazione che sa fare rete. Allo stesso tempo è una mafia che si infiltra. Perché non è mafia un’organizzazione che non sa fare infiltrazione. Il controllo del territorio a cosa serve, se non a sviluppare un processo di infiltrazione? È nel processo di infiltrazione che la mafia porta all’incasso la sua capacità di intimidazione. Le guerre di mafia che si combattono in paesini sperduti e registrano morti servono a definire chi deve controllare il processo di infiltrazione. Noi abbiamo segnali preoccupanti di questo processo di infiltrazione soprattutto nell’agricoltura. A Foggia abbiamo tre grandi ricchezze: il vino, il grano e il pomodoro.

Per il vino abbiamo l’operazione “Bacchus”, che ha documentato l’infiltrazione della mafia foggiana nel settore vitivinicolo e gli investimenti di grossi capitali che andavano a finanziare una frode fiscale allestita da un’impresa del Nord Italia. Per quanto riguarda il grano, molto importante è stata l’operazione “Rodolfo”: la mafia foggiana aveva il controllo estorsivo della società che gestiva la logistica di un importante stabilimento di trasformazione e lavorazione del grano. Quanto al pomodoro, nell’operazione “Saturno” è emerso che l’area di parcheggio di una società di trasformazione del pomodoro di fama internazionale era gestita dalla mafia foggiana. Questi sono tutti segnali estremamente preoccupanti, che danno conto di un’organizzazione che, dopo aver consolidato il proprio potere di controllo militare sul proprio territorio, guarda fuori alla ricerca di orizzonti sempre più ambiziosi.

La paura della brava gente

“La verità, caro dottore, è che quando in paese si saprà quello che ho detto oggi, nessuno verrà mai più nel mio bar a prendersi un caffè”Barista vittima di estorsione

Come si contrasta questa mafia? Come mai questa mafia è così forte? Le risposte non riuscivo proprio a trovarle. Un giorno mi sono imbattuto in una indagine per estorsione legata al Gargano. Chiaramente a Foggia non ci sono denunce per estorsione, se qualcuno denuncia, ritratta in dibattimento. Quella volta siamo fortunati perché i mafiosi, proprio davanti alla microspie, parlano di un’estorsione che stavano consumando ai danni di un esercente locale. Occorreva, però, sentire la vittima perché in un processo un bravo avvocato avrebbe potuto dire che quel giorno quel mafioso si voleva fare grande con il suo amico e stava raccontando fatti non veri. Convoco la vittima e, prima di tutto, contesto formalmente le intercettazioni mettendo tutto a verbale. In questo modo punto a tutelare il povero malcapitato, rendendo evidente che lui non era quello che aveva denunciato i mafiosi ma un semplice testimone obbligato a rispondere alle domande e alle contestazioni del pubblico ministero. Penso che questo potesse essere sufficiente e invece nulla. Panico totale. Siamo stati tanto tempo, così, in silenzio. Alla fine lui ha timidamente ammesso che quello che dicevano i mafiosi non era così lontano dalla verità. Penso quindi che, a questo punto, la situazione si sarebbe sbloccata, anche perché aveva ricevuto assicurazioni anche in materia di protezione personale. Nulla, era ancora più nel panico. Io gli chiesi allora: “hai ancora paura dei mafiosi?”. E lui: “No, dottore”. La verità è un’altra. La vuole sapere?” –“Certo”– faccio io. Allora lui mi incalza e dice: “La verità, caro dottore, è che quando in paese si saprà quello che ho detto oggi, nessuno verrà mai più nel mio bar a prendersi un caffè”.

La mafia uccide, la solitudine pure

Lì ho capito una cosa clamorosa: quando don Luigi dice che la forza delle mafie non è dentro le mafie, ma fuori delle mafie, è assolutamente vero. Lui aveva paura dei suoi concittadini, della cosiddetta “brava gente”: la forza della mafia eravamo “noi”, “noi” che non andavamo a prendere un caffè. Questo codice di comportamento lo chiamo “legalità dell’io” (la stessa legalità delle mafie), che è quella con cui tutti dobbiamo fare i conti; quella che ci porta a pensare che se qualche cosa succede accade sempre agli altri; che conviene coltivare i propri interessi facendo finta che gli altri non esistano; che le raccomandazioni in fondo servono, perché è solo così che si può andare avanti. Questa è la legalità dell’io. Che cosa genera questa “legalità dell’io”? Genera un senso di solitudine e di isolamento. Quell’imprenditore aveva paura dell’isolamento: la mafia uccide perché ti fa rimanere solo. Ma siamo noi che lasciamo sole le persone in balia del ricatto mafioso.

Una triste storia di solitudine è quella di Giovanni Panunzio. È la storia di uno quei pochi foggiani che hanno provato a collaborare con la giustizia ma che sono stati lasciati completamente soli, anche dalle istituzioni. Allora come si vince questo senso di solitudine? È questo il dato antropologico su cui lavorare. Penso che sia questo il punto da cui partire. Il senso di solitudine si supera con l’incontro interpersonale e poi anche con quello istituzionale.

"Un uomo onesto", in libreria il graphic novel sulla storia di Francesco Marcone

Le donne contro la mafia

A Foggia da molto tempo non ci sono collaboratori di giustizia, parliamo di uomini. Ci sono però donne – mamme – che hanno deciso, a un certo punto, di lasciare i loro uomini, di riprendersi i figli e di testimoniare contro i loro parenti mafiosi. Che cosa ha fatto scatenare in queste donne la capacità straordinaria di opporsi contro questo sistema? L’incontro. L’incontro con i figli. Una di queste donne aveva avuto quattro figli: due dal primo marito, a capo di un clan malavitoso, e altri due dall’amante, capomafia del gruppo rivale. Decide di collaborare, quando capisce che i figli sarebbero morti in qualche guerra di mafia e che, addirittura, avrebbero potuto uccidersi reciprocamente. Questo incontro d’amore con i figli le dà la forza di dire basta.

Un’altra donna l’incontro con il figlio lo sviluppa nel grembo, quando è ancora in attesa. Anche lei era l’amante di un boss: quindi non poteva avere figli, doveva solo andare in giro quando lui voleva sfoggiare in giro la bella ragazza. Lei, per salvare questo figlio, molla tutto e decide di collaborare. È ancora l’incontro la chiave di volta del sistema. Un incontro che parte dal piano interpersonale ma che può andare anche oltre e diventare il modo migliore attraverso cui tutti noi possiamo lavorare insieme per affrontare un fenomeno mafioso così preoccupante. Allora l’incontro e il noi diventano la rete.

Liberi di scegliere, un modo diverso di fare antimafia

Potenziare il contrasto

Possiamo immaginare tre grandi reti attraverso cui possiamo e dobbiamo sviluppare l’azione di contrasto. Alcune sono in atto, altre dobbiamo potenziarle.

  1. La prima rete che noi abbiamo creato è quella fra noi magistrati. Sul foggiano opera la Direzione distrettuale antimafia che è a Bari e si occupa di reati di mafia, ma c’è anche la procura di Foggia, la più vicina al territorio. Ora noi abbiamo siglato degli accordi con i colleghi foggiani, per cui le indagini di mafia le facciamo insieme, c’è uno scambio continuo, ci vediamo frequentemente, facciamo condivisione di analisi e di strategie. Molto spesso i colleghi di Foggia vengono inseriti nei nostri pool – perché ci sono gli strumenti processuali che ce lo consentono – in modo tale da avere la capacità di monitorare il fenomeno mafioso non solo dall’alto, ma anche dal basso;
  2. Il secondo livello di rete è quello con la polizia giudiziaria. Stiamo sempre più sviluppando moduli operativi che consentano la valorizzazione del senso di squadra all’interno della polizia giudiziaria. Questo vale soprattutto per quanto riguarda le indagini patrimoniali, dove ci sono reparti che hanno delle competenze specializzate. Sta quindi crescendo la consapevolezza che solo insieme possiamo ottenere risultati importanti. Quindi se c’è una forza polizia giudiziaria che ha delle competenze e delle professionalità particolari gli altri devono essere pronti ad allargare la squadra, perché poi il risultato lo condividiamo tutti insieme. Questa maturità si sta facendo sempre più strada. Anche sull’aspetto delle misure di prevenzione abbiamo creato una centrale unica, un po’ anticipando la riforma, lavorando, anche in questo caso, in sinergia con i colleghi foggiani. In questa materia abbiamo anche elaborato un protocollo operativo comune per tutte le forze dell’ordine: ognuno sa cosa fa l’altro e tutti condividono la partecipazione al risultato comune;
  3. La terza rete è quella più importante, perché è quella che tocca il tema del cambiamento culturale e del risveglio della coscienza civile: è la rete che si sta cercando di creare tra gli apparati della squadra Stato – magistrati, prefetti, commissario antiracket, forze dell’ordine – e il mondo delle associazioni, delle scuole e della comunità civile. Questa è la rete fondamentale, su cui dobbiamo lavorare e dobbiamo investire tantissimo.

Il 21 marzo è un momento unico. Un’occasione unica per portare a Foggia non solo gli aumenti di organico di poliziotti, carabinieri e finanzieri; occorre inaugurare una primavera di contenuti nuovi, dove i valori di libertà, di uguaglianza e di solidarietà, che fondano il modello della legalità del noi, possano sempre più diventare verità di vita vissuta e, per questo, il più formidabile strumento antimafia. Bisogna far capire alla gente che la mafia ti può dare solo una illusione di tranquillità, ma che in realtà quella tranquillità è solo una prigione dentro cui abbiamo incatenato la nostra libertà. La felicità è un’altra cosa. La felicità è un bene collettivo. Possiamo essere felici solo insieme, solo sviluppando il senso del "noi".

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