Al Jaber, presidente della Cop28, mentre annuncia l'istituzione del fondo perdite e danni. Foto: Ansa/M. Divisek
Al Jaber, presidente della Cop28, mentre annuncia l'istituzione del fondo perdite e danni. Foto: Ansa/M. Divisek

Cop28, c'è il Fondo perdite e danni. Fridays for future: "Non basta"

Molti paesi, tra cui l'Italia, hanno annunciato che stanzieranno centinaia di milioni per gli Stati più colpiti dalla crisi climatica. Ma per gli attivisti che rappresentano queste comunità si tratta di promesse insufficienti

Natalie Sclippa

Natalie SclippaRedattrice lavialibera

1 dicembre 2023

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100 milioni di dollari: è la cifra che gli Emirati arabi uniti hanno promesso di stanziare per il Fondo perdite e danni durante la prima giornata della Cop28, il 28esimo incontro annuale delle Nazioni unite sul clima, che quest'anno si svolge a Dubai fino al 12 dicembre. Agli Emirati si sono poi affiancati altri Stati tra cui, nelle ultime ore, l'Italia. La premier Giorgia Meloni ha annunciato che il nostro paese contribuirà con 100 milioni di euro. Il budget è destinato a pagare le conseguenze della crisi climatica sui Paesi più esposti e vulnerabili agli eventi estremi. L'istituzione del fondo continuava a essere rimandata: creato in maniera formale alla Cop27 di Sharm el-Sheik in Egitto, rischiava di rimanere in un angolo per molto tempo a causa delle frizioni tra Stati donatori e riceventi. 

Mohamed El-Hajji, ricercatore e attivista Fridays for Future Mapa
Mohamed El-Hajji, ricercatore e attivista Fridays for Future Mapa

Nonostante il colpo di scena iniziale e la decisione che a gestire il denaro sarà la Banca mondiale, gli attivisti che provengono dalle zone più colpite attendono i prossimi passi. "È un'ottima notizia", commenta a lavialibera Mohamed El-Hajji, ricercatore e uno dei portavoce di Fridays for future Marocco, che però aggiunge: "Non bastano le promesse. In futuro verranno colpite sempre più zone. Il nostro compito sarà monitorare i beneficiari di questi soldi e le altre decisioni che saranno prese".

Cop28 al via, sistemi agroalimentari al centro dell'agenda climatica

Fridays for future Marocco fa parte dei cosiddetti Mapa. Cosa si intende con questo termine?
Mapa è l'acronimo inglese di Most affected people and areas: è una rete che riunisce gli attivisti delle popolazioni e delle aree più esposte e colpite dalla crisi climatica. Abbiamo deciso di unire le nostre richieste per denunciare l'intero sistema di oppressione e i danni che stiamo pagando a causa delle emissioni realizzate da altre parti del mondo. 

"In Marocco, ondate di calore e siccità hanno messo in ginocchio la produzione di olive. Gli  agricoltori raccontano che le loro coltivazioni non hanno futuro"

Cosa chiedete ai delegati presenti alla Cop28?
La nostra richiesta principale è una, da tempo: 100 miliardi di dollari l'anno, da sbloccare entro il 2030. Si tratta di una delle poche possibilità che le aree a basso reddito hanno per riuscire a ripagare i danni della crisi climatica, i cui costi vanno oltre le loro possibilità economiche. Molti dei Paesi più colpiti, infatti, soffrono anche di problemi strutturali a livello sia economico sia sociale. A questa situazione precaria si aggiunge la crisi climatica, che impoverisce ancora di più strati della popolazione già sulla la soglia di povertà, o sotto. La situazione è simile in molte zone, anche se geograficamente distanti. 

Quali sono le conseguenze sul Marocco?
Il Marocco basa ancora gran parte della propria economia sul settore primario (che impiega tra il 45 e il 50 per cento della popolazione ed è responsabile di circa il 15 per cento del prodotto interno lordo, ndr). Uno dei prodotti più conosciuti e più esportati, anche in Unione europea, sono le olive. Secondo i dati del International Olive Council (organizzazione internazionale degli Stati che producono olive o derivati di questo frutto, ndr), durante la campagna 2020/2021 il Marocco ha prodotto 160mila tonnellate di olio d'oliva e 130mila tonnellate di olive da tavola. Questa grande raccolta, però, di recente è stata messa a dura prova dalle ondate di caldo e dalla siccità. Gli stessi agricoltori, con cui siamo in contatto, raccontano che non vedono un futuro per le loro coltivazioni. 

Riuscirete a portare queste storie e le vostre istanze alla Cop28?
La Cop è un'ottima opportunità di dialogo. O meglio, lo sarebbe,  è una piattaforma dove tanti interessi riescono a mettersi intorno allo stesso tavolo. Ma c'è un grande problema: molti attivisti e molte attiviste non hanno le risorse economiche per potersi permettere il viaggio e i giorni di permanenza a Dubai. Per riuscire a superare questo ostacolo, abbiamo proposto a enti, fondazioni e chiunque potesse permettersi un piccolo contribuito, di supportare sia i membri delle comunità sia gli scienziati, in modo che al vertice partecipassero più interlocutori possibili. Grazie al crowdfunding abbiamo raccolto alcune migliaia di euro, ma non sono state sufficiente per portare almeno 20 attiviste e attivisti, come speravamo.

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Cosa vi aspettate da questa Cop?
Non sono molto ottimista su grandi risultati, dati gli interessi delle compagnie di combustibili fossili. Sono lobby forti, che hanno un potere di contrattazione alto (gli stessi Emirati arabi uniti, che ospitano la Cop di quest'anno, basano l'85 per cento della loro economia sull'esportazione di materie prime, ndr). Non so se sarà un'altra Cop all'insegna del greenwashing.

"La nostra richiesta principale è una, da tempo: 100 miliardi di dollari l'anno, da sbloccare entro il 2030. Si tratta di una delle poche possibilità che le aree a basso reddito hanno per riuscire a ripagare i danni della crisi climatica, i cui costi vanno oltre le loro possibilità economiche"

Quale è l'obiettivo che, secondo voi, gli Stati stanno mancando?
C'è un tema che è un grande assente, ma in realtà dovrebbe essere riportato al centro di ogni conversazione: la giustizia sociale. Senza quella, non può esserci giustizia climatica. I gruppi che stanno facendo rumore, che si impegnano nella disobbedienza civile, chiedono supporto finanziario e psicologico per le loro terre e le popolazioni che le abitano. Non vogliono più essere dimenticati. Le popolazioni che vivono nei luoghi travolti dalla crisi climatica sono le stessi che hanno un profondo legame con la propria terra, popolazioni indigene. 

Quali soluzioni sono possibili?
La strada da percorrere è quella del dialogo: nord e sud globale, ossia gli stati che hanno beneficiato di più dei combustibili fossili, e che quindi hanno inquinato di più, devono aiutare economicamente a far fronte ai danni che altri paesi stanno subendo a causa del loro modello di sviluppo. Significa mettere le persone e gli ecosistemi prima degli interessi economici e creare spazi di dibattito inclusivi. Esiste, poi, un enorme lavoro sul medio e lungo periodo che deve essere implementato all'interno delle comunità che punti sull'istruzione, l'educazione, e l'uguaglianza delle giovani generazioni. In questo, ad esempio, i social media possono fare la differenza perché ci sono sempre più persone che si affidano a questi strumenti per informarsi e farsi un'idea su cosa accade nel mondo.

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