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Un antico regno dell'Uganda ci insegna che il "noi" sopravvive al potere

Nel Nkore, nell'attuale Uganda, un tamburo tramandato da generazioni rappresentava la società sopravvissuta ai regnanti. Lo strumento veicolava un messaggio immortale: è meglio camminare insieme, sostenendosi gli uni con gli altri

Francesco Remotti

Francesco RemottiProfessore emerito di Antropologia culturale dell'Università di Torino

12 settembre 2023

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La società non si identifica con lo Stato, ha una sua vita propria ed è bene che le persone sappiano che prima dello Stato vi è un “noi”. Nel Nkore o Ankole (un regno a ovest del Buganda, nell’attuale Uganda), il sovrano disponeva di una capitale mobile a pianta circolare, orurembo, più modesta rispetto alla capitale del Buganda a pianta ovoidale, detta kibuga. Capitale mobile perché, alla morte del sovrano, la città veniva distrutta e ricostruita da un’altra parte. Al centro del regno esisteva poi un’altra capitale fissa, quella del tamburo Bagyendanwa, un vecchio strumento lasciato dai mitici Bacwezi, che i contadini del Nkore avevano preso in custodia per rappresentare non il potere regale ormai scomparso, ma la società rimasta.

Uniti da un tamburo

Per cogliere il significato del termine Bagyendanwa occorre scomporlo: Ba- (quelli che) -gyenda- (vanno) -nwa (reciprocamente insieme). Bagyendanwa è dunque un “noi” fatto da gente che decide di camminare insieme, sostenendosi gli uni con gli altri. Gli abitanti del Nkore affermano che "Bagyendanwa è noi (itwe). Noi siamo figli di Bagyendanwa". Gli abitanti del Nkore erano per un verso coltivatori (baIru) e per l’altro allevatori (baHima), e tutti sanno quanto sia difficile fare convivere in un’unica società queste due componenti. Ebbene, Bagyendanwa è esattamente il “noi” che tiene insieme contadini e pastori. Un “noi” che occorre costruire, superando la potenziale ostilità tra le due componenti.

Non solo. Questo “noi” va accudito, protetto, alimentato, proprio come gli abitanti del Nkore facevano con il loro vecchio tamburo, il quale veniva periodicamente riparato, di giorno alimentato con offerte di cibo e birra, di notte avvolto in una coperta e riscaldato con il fuoco.

Leader a tempo contro il potere

Un impegno condiviso

Non si tratta di una mentalità magica da primitivi, semmai di un comportamento simbolico per rappresentare le seguenti idee: noi sappiamo che il “noi” si può sfasciare, facciamo quindi di tutto sul piano sociale affinché il “noi” tenga. Ci sottomettiamo persino al potere regale, al sovrano (mugabe) come un potere di garanzia sopra alle parti. Ma questo potere non deve prendere il posto del tamburo Bagyendanwa e sostituirsi al “noi”: il potere del mugabe va e viene, mentre la capitale di Bagyendanwa è sempre lì. Dicono gli abitanti del Nkore: "Il mugabe muore, ma Bagyendanwa è sempre con noi".

Grazie all’istituzione di Bagyendanwa, essi avevano una concezione ben chiara dei rapporti tra società e potere. Sostenevano infatti che "Bagyendanwa è il bugabe", ossia la regalità (bugabe) affonda le sue radici, le sue motivazioni nel “noi”. Bagyendanwa è la fonte del potere. "Senza di lui, nessuno può essere mugabe sul suo territorio". Infine, anziché pensare di alienare il nostro potere al mugabe, è il mugabe a dover essere "il servitore di Bagyendanwa", di “noi”, del nostro patto sociale, del nostro progetto di convivenza. Abbiamo dato il potere al sovrano, non perché il suo potere diventi assoluto, ma perché diventi un modo per salvaguardare il “noi”.

Un capo non è per sempre

Patto di stabilità

Nel regno del Nkore vediamo all’opera una concezione raffinata del rapporto tra società e potere. Verso la capitale di Bagyendanwa affluivano tributi (cibo, birra), gestiti da coloro che fungevano da custodi e medium. Nei momenti di difficoltà di singole famiglie o di carestia, la capitale di Bagyendanwa – la capitale del “noi” – era centro di ridistribuzione delle risorse alimentari, nonché rifugio politico per tutti coloro che erano stati condannati dal sovrano. Eppure, quando il potere centrale viene meno, con la morte del sovrano e la scomparsa della sua capitale, anche il “noi” ne risente: è il periodo del buio, del disordine, e Bagyendanwa viene capovolto. Il “noi” non muore, ma ne risulta sconvolto. Il “noi” conferisce il bugabe (la sovranità) al mugabe (il sovrano) e il mugabe, garantendo le leggi e l’ordine generale (una convenzione politica), si pone al servizio del “noi”. Quando viene meno il mugabe, il “noi” entra nel periodo del bikono, del disordine generale, da cui si esce con un nuovo mugabe, una nuova convenzione tra la società e il potere, un nuovo patto tra il “noi” e il potere che dovrà garantire l’ordine al servizio della società.

Ripensare la società

Molti anni fa, ho pensato a una sorprendente convergenza tra il pensiero del Nkore – tutto ruotante sul tamburo Bagyendanwa – e la filosofia politica esposta nel Contratto sociale (1762) di Jean-Jacques Rousseau. In Luoghi e corpi (Torino, Bollati Boringhieri, 1993) abbiamo fatto notare l’importanza, anzi l’imprescindibilità, del consenso del “noi” affinché il potere del sovrano non sia forza e sopruso, ma diritto.

Nel Nkore è Bagyendanwa che conferisce il bugabe (la sovranità) al mugabe (il sovrano): è – per usare un termine ben presente in Rousseau – una vera e propria alienazione di ordine politico. Ma affinché questo possa avvenire, occorre che già esista il “noi”, che preesista al potere e che gli sopravviva. Per gli abitanti del Nkore era del tutto chiaro questo concetto, allorché essi opponevano alla mortalità del mugabe la sopravvivenza del tamburo.

Ma che cos’è Bagyendanwa, questo andare insieme dandosi una mano reciprocamente, se non una convenzione? Per Rousseau si tratta della convenzione originaria, sociale, che trasforma una pluralità in una società, in qualcosa di unitario: per Rousseau è "l’io comune", una persona, un corpo sociale, mentre per gli abitanti del Nkore è un “noi” (itwe), espresso in maniera icastica e inconfondibile da quel Ba- che nelle lingue bantu è il prefisso del plurale per gli esseri umani. Non è forse meglio pensare le società in termini di “noi”, come facevano nel vecchio Nkore, anziché di “io”, come pericolosamente aveva cominciato a fare Rousseau?.

Da lavialibera n° 22, Altro che locale

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