
Alexandra Geese: "Prendiamoci la metà del potere che ci spetta"

15 gennaio 2021
Samir cammina silenzioso tra le tombe spoglie del cimitero islamico di Zenica, cittadina di circa 115mila abitanti al centro della Bosnia. Piccoli obelischi bianchi tracciano un reticolato nel quale muoversi. Nessuna sepoltura spicca per grandezza, vistosità, colore o forma, nessun fiore, nessuna foto. Monumenti semplici, come previsto dal Corano, che si distinguono solo per la loro età, deducibile dalla sfumatura della pietra, le più recenti sono perlate mentre quelle più datate, risalenti alla seconda metà del ‘900, sono ricoperte di una polvere leggera e tendono invece al rossiccio. A ridosso dell’area, quasi a vegliare chi qui riposa, lo stabilimento siderurgico più grande del Paese.
In questo lembo di terra, la storia dell’acciaio si intreccia ormai da oltre un secolo con quella del territorio. Era il 1892 infatti quando un gruppo di industriali austriaci decise di costruire lo stabilimento nella regione ora conosciuta come cantone di Zenica-Doboj. Un iter di produzione lineare con un picco nel 1988 con 1,9 milioni di tonnellate di acciaio grezzo e una sola importante interruzione iniziata durante la guerra degli anni ’90 e durata per circa una decina d’anni. Infine l’acquisizione nel 2004 da parte del gruppo Lnm, in seguito Mittal Company e ora ArcelorMittal. Ad oggi la fabbrica conta circa 2.200 lavoratori, prima della guerra erano oltre 20mila.
Dopo anni di promesse da parte del colosso indiano di investire nell’installazione di filtri per diminuire le emissioni tossiche dello stabilimento e dopo la puntuale conseguente proroga governativa delle scadenze per la fine dei lavori, in molti a Zenica si sentono presi in giro.
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