Due militari della guardia costiera controllano dei pescatori di frodo di cetrioli di mare (Guardia costiera)
Due militari della guardia costiera controllano dei pescatori di frodo di cetrioli di mare (Guardia costiera)

(Im)prenditori di oloturie

Tra Puglia e Grecia c'è un commercio illecito di cetrioli di mare, molto richiesti in Asia. Al centro un grossista greco e alcuni fornitori con precedenti per mafia o droga. Un affare milionario che danneggia il Mediterraneo

Andrea Giambartolomei

Andrea GiambartolomeiRedattore lavialibera

21 settembre 2022

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Nell’Adriatico, tra Puglia e Grecia, c’è un commercio illegale che aggredisce i fondali dello Ionio e impoverisce l’ecosistema marino. Un’attività fiorita intorno al 2015, quando un grossista greco ha convinto certi suoi fornitori pugliesi, alcuni con precedenti per mafia o droga, a procurargli le oloturie, o cetrioli di mare, animali dalla forma allungata diffusi sulla superficie sabbiosa del Golfo di Taranto. Creature destinate ai mercati della Cina, dove sono apprezzate (e pagate molto bene) in cucina e in cosmetica. Nonostante divieti e processi, questa pesca non si è mai fermata. 

Taranto, l’Ilva e le cozze alla diossina

"Ho scoperto il traffico di oloturie seguendo la vendita delle cozze contaminate"Luciano Manna - Attivista, fondatore di Veraleaks

In Italia un polo del commercio di oloturie è Taranto, la città dei due mari: il Mar grande, quello aperto solcato dai mercantili e dalle imbarcazioni della Marina militare, e il Mar piccolo, insenatura chiusa dal borgo antico. In queste acque si pratica la miticoltura, cioè l’allevamento di cozze, fondamentale per l’economia cittadina. Se non fosse che una decina di anni fa, l’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) ha rilevato nei mitili la presenza di diossina e bifenili policlorurati (pcb), sostanze tossiche provenienti dalle ciminiere dell’Ilva, l’acciaieria che dà lavoro (ma anche malattie e morte) a migliaia di abitanti. "Da allora noi ambientalisti e attivisti vigiliamo sui valori di diossina e pcb nelle cozze, sempre alti e ancora preoccupanti", spiega Luciano Manna, fondatore del sito di denuncia VeraLeaks.

La contaminazione mette in difficoltà un intero settore e c’è chi, pur di guadagnare, cerca di vendere cozze sgusciate e senza etichetta per strada o alle pescherie. "Ho scoperto il traffico di oloturie seguendo la vendita delle cozze contaminate", prosegue Manna. Un conoscente gli racconta della vendita di cetrioli di mare ai cinesi. Nello stesso periodo, la guardia di finanza nota che un numero sempre più alto di pescatori abusivi di ricci di mare si dedica alla ricerca di oloturie, più remunerative: "C’era gente che si buttava a mare per 50 euro al giorno, la maggior parte ex detenuti, persone con problemi di droga, povera gente", spiega Tommaso Dilonardo, imprenditore che commerciava in oloturie. Manna riesce a entrare nelle chat dei venditori: "I pescatori tarantini chiedevano 10 euro al chilo, poi il piazzista asiatico le metteva in vendita su WeChat a 100 o 200 dollari al chilo". Nel 2018 l’attivista presenta un esposto alla procura.

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Le indagini sui traffici di cetrioli di mare

"Le oloturie sono fondamentali nell’ecosistema: vivono sul fondo del mare e mangiano il sedimento, smuovendolo e ossigenandolo. Catturano batteri, alcuni dei quali patogeni per l’uomo, e microalghe di cui si nutrono, quindi lo rilasciano senza questi componenti. Fertilizzano i sedimenti consentendo la crescita di piante" Loredana Stabili - Ricercatrice Cnr

La denuncia di Manna arriva a un magistrato, il sostituto procuratore Mariano Buccoliero, che aveva già iniziato a indagare il fenomeno nel 2015, anno dell’introduzione della legge sugli ecoreati. Buccoliero ipotizza che siano stati commessi i reati di inquinamento e disastro ambientale, e chiede un’analisi all’Istituto per l’ambiente marino costiero del Cnr. Due biologhe, Elena Cecere e Loredana Stabili, stilano una relazione. "Le oloturie hanno un ruolo fondamentale nell’ecosistema marino – spiega a lavialibera Stabili – vivono sul fondo del mare e mangiano il sedimento, smuovendolo e ossigenandolo. Dal sedimento catturano batteri, alcuni dei quali patogeni per l’uomo, e microalghe di cui si nutrono, quindi lo rilasciano privo di questi componenti. Infine, fertilizzano i sedimenti consentendo la crescita di piante". Fra queste, la posidonia, che a sua volta favorisce l’ossigenazione dell’acqua. "Qualunque evento di ampia portata, come la pesca di frodo di tonnellate di oloturie, provoca un danno che a volte può anche essere irreversibile", aggiunge Cecere. Anche grazie al loro lavoro, nel 2018, il ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali (Mipaaf) ne vieta la pesca.

Nel frattempo, guardia di finanza e polizia portano avanti l’indagine Deserto blu. Osservano i pescatori con regolare autorizzazione, ma anche quelli che ne sono sprovvisti: disoccupati, parcheggiatori abusivi o spacciatori, che si immergono per raccogliere “pizze marine” (così sono chiamate in Puglia le oloturie), datteri e ricci di mare. La procura individua due gruppi distinti guidati dai fratelli Giuseppe ed Emanuele Catapano, commercianti di frutti di mare che negli anni Novanta avevano partecipato alle estorsioni ai miticoltori per il clan Modeo, il più potente in città. Nel 2010 per quei fatti sono stati condannati in via definitiva a quattro anni di reclusione, con l’accusa di associazione mafiosa finalizzata alle estorsioni. "Nel frattempo si sono ripuliti dedicandosi all’economia lecita", dice il loro avvocato, Gaetano Vitale. A gennaio, tuttavia, la Direzione investigativa antimafia ha confiscato al primo dei fratelli beni per cinque milioni di euro, ritenendoli il frutto delle estorsioni ai miticoltori compiute anni prima.

Con il commercio di oloturie i Catapano si sono mossi in una sorta di zona grigia. Per la procura, i due gruppi hanno sfruttato "numerosi piccoli pescatori abusivi" provocando "un grave danno alla biodiversità" con "l’alterazione grave e irreversibile dell’ecosistema marino". A Giuseppe e alla moglie viene contestato di avere esportato verso Hong Kong oltre 353 mila chili di prodotto lavorato, "pari a oltre due milioni di esemplari di oloturie vive, per un controvalore di 2.498.000 di euro". Oggi i fratelli Catapano, insieme alle rispettive mogli e all’imprenditore Tommaso Dilonardo, sono a processo. La difesa contesta, fra le altre cose, la mancanza di un divieto specifico. "La procura ritiene che i Catapano avessero organizzato la raccolta fatta dai pescatori, ma in realtà acquistavano i prodotti dai pescatori in libera concorrenza", aggiunge l’avvocato Vitale. Anche Dilonardo, 60 anni, di Martina Franca, contesta la ricostruzione: "Ho cercato di fare le cose per bene, con avvocati e commercialisti". Acquistava le oloturie da una cooperativa di pescatori, etichettava e vendeva tutto come esche perché "era l’unica maniera pulita, non si potevano vendere come prodotto alimentare".

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Il ruolo del grossista greco

"Questa attività è sorta grazie al greco Giorgio Dimoudis, che è il mio commerciante di frutti di mare esteri", ha spiegato ai giudici, lo scorso 30 maggio, Emanuele Catapano. Dimoudis è il vicepresidente e amministratore delegato della Fratelli Dimoudis, un’azienda di Chalastra, vicino Salonicco, che "ha contatti in tutta la Puglia con i commercianti di frutti di mare". Catapano ha ricordato come è nata la collaborazione: "Ci ha spiegato che potevamo iniziare a lavorare il prodotto, un’esca di mare che gli serviva per il mercato greco. Abbiamo risposto che se fosse stata una cosa fattibile si poteva cominciare". Il grossista mandava in Puglia i camion di cozze e ripartivano con le pizze marine accumulate dagli imprenditori tarantini nella rete di fornitori. Dimoudis poteva "prendere venti bins (grossi cesti di plastica, ndr) al giorno", quasi venti tonnellate al dì.

Per gli inquirenti, Dimoudis custodisce i contatti e cura gli affari con gli operatori cinesi. Il suo nome compare anche in un’altra inchiesta, Kalimera, condotta dalla guardia costiera di Taranto. Otto mesi di indagine che il 19 novembre 2021 hanno portato diciassette persone ai domiciliari. L’accusa parla di un’associazione a delinquere finalizzata all’inquinamento e al disastro ambientale guidata da due uomini, Ivan Cardellicchio e Vito Modesto Colella, entrambi con precedenti per droga. Anche in questo procedimento compare Dilonardo, accusato di ricettazione per la presunta compravendita (che lui nega) di 200 chili di oloturie pescate abusivamente. "Non capisco tutto questo accanimento nei miei confronti, sembra diventata una questione personale", si sfoga il 60enne, che uscito dal carcere intorno al 2005 con un diploma in tasca, aveva avviato una propria attività nel settore ittico. Poi come altri ha fiutato l’affare dei cetrioli di mare, fino a quando sono cominciati i sequestri della merce, le indagini e gli arresti domiciliari del novembre 2021. "Non mi piace stare tra l’illegale e il legale – continua Dilonardo – ho proposto di regolamentare la questione, ma hanno sollevato un muro e chi ne ha tratto giovamento sono stati i pescatori abusivi e i greci".

Molte persone coinvolte nell’inchiesta Kalimera hanno spiegato agli investigatori che i cetrioli di mare venivano acquistati dal grossista greco. "Ogni giorno uno dei capi comunicava ai sub luogo e tempi per la pesca notturna – racconta il tenente di vascello della guardia costiera, Angelo Colonna –. Poi si ritrovavano a San Vito, a sud di Taranto, per raccogliere i prodotti. Pagavano le oloturie in base al peso e al tipo, le “bianche” (holothuria tubulosa) sono più pregiate delle “nere” (holothuria polii). Poi, il secondo capo portava la merce ai porti di Bari e Brindisi per consegnarla ai camionisti greci". Valore complessivo stimato dalla guardia costiera: 4,5 milioni di euro. "Non era un affare remunerativo per le popolazioni locali, ma per gli intermediari", sottolinea il capitano di vascello Diego Tomat, comandante della capitaneria di porto.

Il 14 dicembre 2015 a Gallipoli (Lecce) la guardia costiera ha trovato 11.383 chili di oloturie su un camion destinato alla Dimoudis della ditta Pizzamarina, che a sua volta le aveva acquistate da sette pescatori. L’azienda fa capo a Davide Quintana, 41 anni, commerciante di prodotti ittici ritenuto legato al clan Rizzo della Sacra corona unita, la mafia leccese. Nel 2021 Quintana è stato condannato in appello a sette anni per associazione mafiosa nel processo Labirinto ed è in attesa della Cassazione. A partire da quel sequestro, la guardia di finanza ha scoperto fatture per la vendita di decine di tonnellate di oloturie, classificate sempre come esche. Il 28 gennaio 2022 Quintana e i pescatori hanno avuto una condanna a sei anni per inquinamento ambientale, "il massimo della pena possibile", spiega Ladislao Massari, avvocato di Quintana, che nel frattempo ha presentato ricorso. Dimoudis, contattato da lavialibera, non ha risposto alle chiamate e ai messaggi.

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Leggi e sentenze non bastano

Nei processi in corso gli avvocati ricordano che prima del 2018 la pesca alle oloturie era consentita: "Non è una specie commestibile e non ci si poneva il problema", nota Stabili. Il tribunale di Lecce, col suo verdetto, ha stabilito che questo aspetto non rileva, perché la legge vieta la cattura indiscriminata che danneggia la biodiversità.

A distanza di sei anni dal divieto di pesca e nonostante i processi, la pesca prosegue. "Nel mar Grande continua nelle ore notturne – rivela Manna – e la linea di traffico è sempre la stessa". Ne è certa anche Cecere: "Ho trovato molti esemplari aperti ed eviscerati, forse scaricati in fretta da qualche barca. Non mollano perché è un’attività redditizia e per alcuni vale la pena di rischiare il carcere". "I greci ancora oggi mandano intermediari a comprare dai pescatori abusivi – rivela Dilonardo –. Arrivano con le valige piene di soldi e la fanno sotto il naso a tutti".

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Questo articolo è stato realizzato col supporto di Internews e dell’Earth Journalism Network nell'ambito del Mediterranean Media Initiative

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