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La pericolosa ambiguità del Pakistan

Il Pakistan, considerato dalle grandi potenze mondiali un alleato contro il terrorismo, produce nelle fabbriche clandestine milioni di armi che finiscono in mani sconosciute

Lucia Vastano

Lucia VastanoGiornalista di guerra

1 maggio 2024

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Ha un ruolo chiave negli equilibri strategici globali, ma della Repubblica islamica del Pakistan alle nostre latitudini si conosce ancora troppo poco. I media ne hanno parlato in occasione di devastanti calamità naturali come il terremoto che nel 2005 ha colpito la regione del Kashmir; per le violente inondazioni che periodicamente mietono vittime o, ancora, per la miseria che interessa molti dei 243 milioni di abitanti, il 40 per cento dei quali è costretto a vivere con poco più di tre dollari al giorno.

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Sul Pakistan, ormai da qualche decennio, hanno puntato i loro occhi potenze mondiali quali Cina, Russia, India e Stati Uniti: il Paese, infatti, vanta nel suo arsenale 130 testate nucleari ed è il settimo esercito più potente del mondo, con un milione e mezzo di militari, professionisti e riservisti, oltre a un numero non definito di mercenari jihadisti che vi transitano o vi trovano rifugio.

L’esercito può contare su un milione e mezzo di militari, un numero infinito di mercenari e 130 testate nucleari

Alcuni grandi paesi (fra cui anche l’Italia, con il colosso dell’industria della difesa Leonardo) riforniscono di armi e mezzi l’esercito pakistano, considerato un alleato fondamentale nella lotta al terrorismo. La verità, però, è anche un’altra: nessuna nazione vuole rimanere esclusa da quello che è definito il cosiddetto Nuovo Grande gioco (nel XIX secolo il Grande gioco vedeva Regno Unito e l’impero russo contendersi il controllo dell’Asia centrale) che ora guarda a Oriente, dove si è spostato il baricentro economico del mondo.

Nessuna nazione vuole rimanere esclusa da quello che è definito il cosiddetto Nuovo Grande gioco, che ora guarda a Oriente

I paesi asiatici, in costante sviluppo, dal canto loro vogliono emanciparsi dalla povertà, dall’arretratezza e, orgogliosamente, anche dall’egemonia dell’Occidente, che rispetto al passato è visto sempre meno come modello culturale di riferimento.

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A differenza dell’Afghanistan, il Pakistan è libero di giocare con ambiguità la sua partita, trattato con i guanti di velluto perché considerato una potenza nucleare. Dal 2016, a Washington, si discute se inserirlo nella lista degli Stati canaglia, ma non sembra esservi alcuna volontà di isolarlo. L’intenzione, semmai, è infastidire la Cina, che ha intensificato i legami con la capitale Islamabad, e dare un contentino all’India, con la quale gli Usa vogliono suggellare i rapporti a scapito della Russia.

Guerra, un racconto distorto

Nel frattempo, nei villaggi delle aree tribali pashtun della provincia della frontiera nord-occidentale, proliferano fabbriche artigianali e clandestine di armi, capaci di produrre le più micidiali in circolazione: fucili M-16 americani da 60 dollari, Kalashnikov, Beretta italiane. Il commercio si svolge alla luce del sole e si stima che in giro vi siano oltre 50 milioni di armi prodotte artigianalmente, finite in mani sconosciute. Il governo ha più volte minacciato di adottare provvedimenti severi per contrastare il fenomeno, ma fino a oggi le parole non si sono mai tramutate in azioni.

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Qui la presenza dei clan pashtun supera i confini con l’Afghanistan, definiti dalla linea Durand (1893) per volontà della diplomazia britannica, la stessa che guidata da Lord Louis Mountbatten (l’ultimo viceré dell’impero anglo-indiano, ndr), mezzo secolo dopo, nel 1947, pretese la partizione dell’India come conditio sine qua non per concedere l’indipendenza.

Dividi et impera

Le modalità con le quali avvenne la separazione spiegano l’attuale instabilità dell’area. Il Mahatma Gandhi si oppose alla divisione di uno stesso popolo in base al credo religioso, prevedendo che avrebbe causato per decenni lo spargimento di sangue innocente da entrambe le parti. E aveva ragione. In pochi giorni si contarono milioni di morti, 14 milioni di persone dovettero abbandonare case e proprietà per sfuggire ai massacri: in Pakistan i musulmani, in India gli hindu.

Gandhi si oppose alla divisione di uno stesso popolo in base al credo religioso, prevedendo che avrebbe causato per decenni lo spargimento di sangue innocente da entrambe le parti

"Preferirei aspettare altri 40 anni per l’indipendenza, a patto di rimanere uniti", aveva dichiarato Gandhi. Muhammad Ali Jinnah, il padre fondatore del Pakistan, pur stimando Gandhi, influenzato dal filosofo e poeta Muhammad Iqbal, sostenne la proposta britannica di creare lo Stato islamico del Pakistan diviso in due: a Occidente dell’India il Pakistan attuale; a Oriente quello che nel 1971, nonostante la repressione dell’esercito governativo (3 milioni di morti, 8 milioni di rifugiati in India), ottenne l’indipendenza e divenne l’odierno Bangladesh.

Secoli di convivenza pacifica svanirono per la volontà del Regno Unito, che fece di tutto per inasprire le divergenze tra le due comunità con l’intento di dividere l’impero indiano e mantenerne con più facilità il controllo attraverso il Commonwealth. Per comprendere le brutalità di oggi, non certo per giustificarle, è necessario conoscere la storia passata e anche il ruolo di chi non ha agito per evitarle.

Fomentare l’odio religioso

Alcuni episodi più o meno recenti aiutano a capire le dinamiche dell’odio e perché il Pakistan ha assunto un ruolo centrale nel terrorismo. Nel Gujarat indiano (febbraio 2002), l’incendio di un treno costò la vita a 58 pellegrini hindu. Il premier Narendra Modi, al tempo governatore dello Stato federale, attribuì la responsabilità ai musulmani e incitò alla vendetta contro le loro comunità. Le stime ufficiali indiane parlano di 1.044 morti, l’80 per cento dei quali fedeli islamici.

Numerose ong, tra cui Human Rights Watch, sostennero che fu un vero pogrom e contarono oltre duemila vittime musulmane. Tutte le famiglie ebbero dei morti da piangere: chi scappò in Pakistan portò in valigia poche cose e tanto odio verso i responsabili del massacro, i nazionalisti hindu istigati da Modi. L’episodio richiamò numerosi jihadisti provenienti anche dall’Africa orientale, ansiosi di vendicare i morti del Gujarat.

"Dove c’è la jihad è la mia patria, voglio unirmi ai fratelli indipendentisti del Kashmir per rendere giustizia alle vittime degli assassinati indiani", mi disse un ragazzo somalo che incontrai nel mio rischioso viaggio in bus da Kabul a Srinagar, pochi giorni dopo le stragi. I media occidentali erano distratti dall’arrivo in Afghanistan dei contingenti internazionali, mentre i gruppi terroristici approfittarono dello sdegno dei musulmani per reclutare giovani tra le loro fila.

"Dove c’è la jihad è la mia patria, voglio unirmi ai fratelli indipendentisti del Kashmir per rendere giustizia alle vittime degli assassinati indiani", mi disse un ragazzo somalo che incontrai nel mio viaggio da Kabul a Srinagar

Lo slogan era semplice ed efficace: morire da eroi e guadagnare il paradiso dei giusti. Le stesse parole usate quasi un millennio fa dal Vecchio della Montagna, al-Hassan ibn al Sabbah, (1050-1124) che, dalla fortezza di Alamut (nel nord della Persia), prometteva l’accesso allo stesso paradiso ai membri della sua "setta degli assassini", uomini mandati a compiere delitti commissionati a pagamento.

L’odio dei pakistani nei riguardi dell’India si manifestò con estrema violenza il 26 novembre 2008, quando Mumbai fu sconvolta da dieci attentati compiuti in contemporanea. Le vittime, soprattutto indiane, furono 195, mentre 610 persone vennero tenute in ostaggio per 60 ore. I target furono hotel di lusso (il Taj Mahal Palace, l’Oberoi Trident), una stazione ferroviaria, una caserma di polizia, la sede del movimento ebraico Chabad Lubavitch.

Del gruppo terroristico responsabile facevano parte anche ufficiali dell’esercito di Islamabad. Abad Dadachanji, un attivista nonviolento, fu testimone del massacro al Leopold Café. "Ero appena uscito quando scoppiò l’inferno. Rivedo ancora la scena, i terroristi cominciarono a sparare dall’esterno del locale. Morirono dieci persone, tantissimi i feriti, il sangue era dappertutto. Cercai sui giornali se tra le vittime ci fosse un ragazzino australiano a cui avevo offerto un frullato. Per fortuna è riuscito a salvarsi, non so se sia rimasto ferito. Mi darebbe conforto sapere che sta bene e che è riuscito a superare lo shock".

Kashmir come la Palestina

Nel marzo 2002 arrivai a Srinagar, sotto un metro di neve. La città era militarizzata, il responsabile dell’Onu, un uruguayano che da mesi aspettava di essere sostituito, mi disse che un paio d’ore dopo il mio passaggio, lungo la strada dove avevo incontrato il giovane jihadista somalo, c’era stato un attentato: una bomba era esplosa e l’auto di una famiglia con sei persone a bordo era volata nel precipizio.

"In Kashmir ci sono vittime innocenti ogni giorno. Quello che stanno facendo gli indiani contro i civili è indifendibile, basta il sospetto che in una casa si nasconda un terrorista per giustificare un massacro. Noi siamo solo osservatori, assistiamo impotenti alle violenze. La popolazione ci accusa, ma il nostro mandato non ci permette di intervenire per difenderli. Compiliamo rapporti quotidiani che nessuno legge, è psicologicamente devastante". 

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Le sue parole sono ancora valide, in Kashmir e altrove. Con la partizione, il Kashmir fu diviso tra India e Pakistan. Nel 1960 i cinesi annessero parte della porzione attribuita all’India, ma nessuno ha mai accettato i confini lungo i quali hanno schierato gli eserciti. Gli indipendentisti kashmiri reclamano la creazione di uno stato proprio e per questo vengono ritenuti terroristi.

Modi, intanto, continua a gettare benzina sul fuoco. Nel 2019, ha soppresso l’articolo 370 della Costituzione che garantiva al Kashmir l’autonomia, un proprio parlamento e il divieto per i “coloni” indiani di possedere proprietà. La repressione dei militari indiani sui kashmiri è serrata: arresti ingiustificati, sparizioni, case di presunti terroristi abbattute. Ma il ministro degli Interni, Amit Shah, in visita a Srinagar nell’ottobre 2021, così si è espresso: "Sono venuto per stringere amicizia e invitarvi a sostenere Modi. Sono qui per cercare la vostra cooperazione per rafforzare la democrazia. Porteremo pace, sviluppo e infrastrutture. Nessuno potrà impedire questo processo".

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Suona come una dichiarazione di guerra, soprattutto rivolta al Kashmir pakistano che il ministro intende "liberare dal terrorismo". In altre parole annettere. Il Pakistan sicuramente non starà a guardare.

I Gattopardi dell’Asia centrale

A febbraio si sono svolte le elezioni per la Camera bassa del parlamento. Dal carcere, via web, attraverso un avatar prodotto dall’intelligenza artificiale, l’ex primo ministro Imran Khan, destituito e arrestato dai militari per corruzione, ha rivendicato la vittoria dei candidati indipendenti che hanno ottenuto la maggioranza relativa dei seggi: 101 deputati, dei quali 93 da lui sostenuti. Gli altri partiti storici sono stati distanziati: la favorita Lega musulmana del Pakistan (Pml), appoggiata dai militari, ha ottenuto 73 seggi; il Partito popolare del Pakistan (Ppp), guidato dal Bilawal, rampollo della famiglia Bhutto-Zardari, 54.

Nonostante le proteste di Khan, al governo è salito il candidato della Pml Shehbaz Sharif, arrestato nel 2020 per riciclaggio e scarcerato dopo sette mesi. Il neo premier ha potuto contare sull’appoggio del Ppp, che in cambio nelle elezioni presidenziali del 9 marzo ha avuto la presidenza per Asif Ali Zardari, padre di Bilawal e vedovo di Benazir Bhutto, due volte premier, uccisa in un attentato nel 2007, compiuto con la complicità dei militari.

"Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi". La frase che Tomasi di Lampedusa fece pronunciare a Tancredi nel Gattopardo ben si adatta alla politica del Pakistan: primi ministri e presidenti si susseguono, sono destituiti e poi rieletti, assassinati o arrestati. Anche il padre di Benazir, il primo ministro Ali Bhutto, venne giustiziato in seguito a un golpe militare. A controllare la politica pakistana è l’esercito, direttamente al potere per quasi 40 anni e capace di liberarsi dei leader “sgraditi” con la forza o per vie giudiziarie.

Premier e presidenti si susseguono, destituiti e poi rieletti, assassinati o arrestati. Solo l’esercito mantiene saldo il dominio

L’Inter services intelligence (Isi) è il suo potente servizio segreto, in contrasto con le altre due agenzie governative per la sicurezza, ed è spesso coinvolto in attentati terroristici. Come quello del 1998, quando cinque ufficiali di alto grado dell’Isi furono tra le vittime del bombardamento americano in un campo di addestramento di al-Qaida, in Afghanistan. Negli anni del governo talebano guidato dal Mullah Omar, l’Isi non solo addestrava militarmente i fondamentalisti, ma i suoi uomini costituivano il cuore dell’esercito che contrastava l’avanzata dell’Alleanza del Nord, gruppi di combattenti afghani che si oppongono il regime di Kabul.

Il diario dall'Afghanistan

Quando dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti il presidente pakistano Pervez Musharraf, per opportunismo politico, richiamò l’Isi in patria, la capitale afghana fu liberata in pochi giorni. Molti anni dopo, il 2 maggio 2011, Osama bin Laden fu catturato e ucciso ad Abbottabad, nella provincia di frontiera nord-occidentale.

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