Pasquale Ferrara, direttore generale per gli Affari politici e di sicurezza al ministero degli Affari esteri
Pasquale Ferrara, direttore generale per gli Affari politici e di sicurezza al ministero degli Affari esteri

"Per negoziare la pace serve ascoltare il nemico", spiega l'ambasciatore Ferrara

L'ambasciatore Pasquale Ferrara, oggi direttore generale per gli Affari politici e di sicurezza al ministero degli Affari esteri, riflette sulla risoluzione dei conflitti: "La guerra non è la continuazione della politica con altri mezzi, ma la sua negazione"

Andrea Giambartolomei

Andrea GiambartolomeiRedattore lavialibera

Aggiornato il giorno 9 maggio 2024

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Cambiare i paradigmi. Non più "Si vis pacem, para bellum", cioè "Se vuoi la pace, prepara la guerra", ma "confirma fidem", ossia "consolida la fiducia". O ancora, stravolgere l’assunto del generale prussiano Carl Von Clausewitz per il quale "la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi", affermando invece che è la negazione della politica. Da 40 anni al lavoro nella diplomazia e nei palazzi romani, l’ambasciatore Pasquale Ferrara, ora direttore generale per gli Affari politici e di sicurezza al ministero degli Affari esteri, ha scritto il saggio Cercando un paese innocente.La pace possibile in un mondo in frantumi (Città nuova editrice, 2023), riflessione sulla risoluzione dei conflitti.

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Ambasciatore Ferrara, come si fa la pace?
Se rispondo bene mi danno il Nobel! Oggi manca una pratica molto antica, l’ascolto delle ragioni dell’altro. Serve a capire qual è la prospettiva difesa dagli attori più problematici e più distruttivi in politica internazionale. Questo ha a che fare con il necessario rispetto degli interlocutori, che non significa approvare ciò che accade, ma capire e ascoltare per poi far evolvere le posizioni.

Oggi manca una pratica molto antica, l’ascolto delle ragioni dell’altro. Serve a capire qual è la prospettiva difesa dagli attori più problematici e più distruttivi in politica internazionale

Si può cercare il contatto con i “cattivi” o è un tabù?
Durante l’insegnamento universitario, una delle mie lezioni si intitola “Parlare col nemico?”. Col nemico si parla, anche se rimane un nemico. Guardiamo al conflitto tra Israele e Hamas: entrambi vogliono la distruzione dell’altro, ma per risolvere un problema, che è quello degli ostaggi, si devono parlare. Questo non significa che Israele stia legittimando Hamas, né che stia cedendo. Vuol dire semmai entrare in un’ottica realistica di risoluzione dei problemi. Non esiste un negoziato che fallisce del tutto, perché lascia sempre qualcosa.

Nel conflitto in Terra santa c’è stata pure una mediazione tra i capi dei servizi segreti di Stati Uniti, Israele e Qatar. Anche l’intelligence ha un ruolo nei negoziati?
Essendo servizi segreti è un segreto. In situazioni così complesse intervengono tutte le agenzie pubbliche. Il timone resta però sempre in mano alla politica, che deve tracciare una linea su cui costruire un accordo.

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Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha posto come condizione per il negoziato il fatto che Vladimir Putin non sia più presidente della Russia e questo – considerando il potere che Putin mantiene – sembra un ostacolo alla mediazione. È possibile arrivare a un accordo con tali condizioni?
Zelensky ha posto questa condizione e anche Putin ha messo le sue, procedendo all’annessione delle regioni occupate. Queste sono delle impraticabilità dal punto di vista negoziale. Si parla molto della formula di pace di Zelensky e di altre iniziative, ma spesso sono una serie di principi generali. I negoziati bisogna farli col nemico e bisogna creare una piattaforma, cioè un percorso di azioni e risposte che possono poi, in un processo di escalation positiva, portare alla pace. Tra Russia e Ucraina non siamo ancora a questo punto. Per la tregua tra Israele e Hamas, invece, ci sono stati dei passaggi: Hamas libera un certo numero di ostaggi mentre Israele proclama una tregua e rilascia dei detenuti palestinesi. Questo pacchetto negoziale è un caso di scuola, non un piano astratto.

A chi spetta promuovere una piattaforma negoziale?
Bisogna prima arrivare a una situazione in cui le due parti realizzano che non ci sono soluzioni militari, non c’è una vittoria o una sconfitta assoluta, che lo stallo non è sostenibile. A quel punto, non è importante quale organizzazione interverrà, che siano le Nazioni unite o l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), di cui fa parte anche la Russia, già coinvolta negli accordi di Minsk, poi naufragati.

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In Italia si investe molto di più nella difesa, anziché nella diplomazia, no?
Ogni governo fa le sue scelte, ma sono convinto che i bilanci dei paesi non siano soltanto documenti contabili, ma etici. Difesa e diplomazia sono due facce della stessa medaglia che devono andare insieme, altrimenti si crea uno squilibrio nella politica estera. La Nato chiede ai suoi membri una spesa militare annua pari al 2 per cento di pil, ma non ci siamo ancora arrivati. L’Italia è però lontana dallo spendere lo 0,2 per cento di pil per la diplomazia, perché è ferma allo 0,11. Se per via dell’instabilità internazionale bisogna dotare il Paese di strumenti di difesa più appropriati, a maggior ragione bisogna investire in diplomazia. Il posizionamento italiano in una situazione internazionale frammentata e conflittuale passa anche attraverso un’adeguata rete diplomatica, per questo ho proposto un “diplomatic surge”, un’impennata diplomatica.

La Nato chiede ai suoi membri una spesa militare annua pari al 2 per cento di pil, ma non ci siamo ancora arrivati

Lei scrive che "c’è ancora un certo pudore" a evocare l’etica in questo ambiente.
Le relazioni internazionali si basano moltissimo sulla concretezza. Applicare l’etica in questo ambito significa per esempio preferire una soluzione politica a una militare, oppure essere pronti ad assumere responsabilità in termini di negoziato e di mediazione, e quindi assumersi anche i rischi di fallimento. Non dimentichiamo il tema della cooperazione allo sviluppo, non basata soltanto sulla dazione, ma sul partneriato. È etico anche sostenere, quando possibile, la società civile nei processi di transizione.

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Terminato il conflitto militare, restano ferite, rancori e magari anche desideri di vendetta. Come si interviene?
È uno scenario molto importante, entrano in funzione dei processi di riconciliazione, ma anche di ricostruzione delle istituzioni. Tra le questioni cruciali c’è il tema della verità e della giustizia, non soltanto per punire i responsabili, fatto necessario, ma anche come catarsi nazionale: si dà un palcoscenico alle vittime affinché le tragedie diventino patrimonio comune e perché le vittime non siano più solamente persone che hanno subito soprusi e violenze, ma attori che partecipano alla ricostruzione del tessuto sociale lacerato. Poi c’è il tema del perdono, che non significa né amnesia, né amnistia, ma guardare in faccia le responsabilità e decidere che non sono un ostacolo a una ripresa delle relazioni. La tragedia rimane nella sua gravità, ma deve essere superata per costruire insieme un ordine più giusto e più inclusivo.

C'è il tema del perdono, che non significa né amnesia, né amnistia, ma guardare in faccia le responsabilità e decidere che non sono un ostacolo a una ripresa delle relazioni

La società civile può avere un ruolo proprio nei negoziati?
Deve avere un ruolo! Le strategie di inclusione sono diverse e variegate. Per esempio, in molti processi di pace di mediazione deve essere presente. In alcuni casi, sotto la guida dell’Onu o di altre organizzazioni multilaterali, anche se non inclusa nelle delegazioni, può partecipare come osservatore e aggiungere le sue proposte, i suoi documenti e il suo punto di vista.

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