L'ex senatore del Pdl, Marcello Dell'Utri nell'aula bunker del carcere Pagliarelli, Palermo, 25 marzo 2013 (Ansa)
L'ex senatore del Pdl, Marcello Dell'Utri nell'aula bunker del carcere Pagliarelli, Palermo, 25 marzo 2013 (Ansa)

Trattativa Stato-mafia: ci fu, ma il reato è solo dei boss

La sentenza d'appello del processo Trattativa Stato-mafia ribalta il verdetto di primo grado, assolti gli uomini del Ros, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, e l'ex senatore Marcello Dell'Utri. Condannati invece il medico-mafioso Antonino Cinà e il boss Leoluca Bagarella

Dario De Luca

Dario De LucaGiornalista di MeridioNews

24 settembre 2021

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Depistaggi, servizi segreti, mafiosi, bombe e stragi. Da un lato gli uomini d’onore di Cosa nostra, dall’altro i rappresentati dello Stato in divisa. In dialogo tra loro, questo è certo. Meno chiari, nonostante siano passati tre decenni, sono invece toni, intenzioni e risultati. Si chiude così il processo d’appello sulla Trattativa Stato-mafia: le istituzioni hanno trattato con Cosa nostra, ma lo hanno fatto senza macchiarsi di un reato. Assolti carabinieri e politici e condannati il medico-mafioso Antonino Cinà e il boss Leoluca Bagarella, cognato del padrino stragista Totò Riina. Unici colpevoli, per la corte presieduta dal giudice Angelo Pellino, dei messaggi che venivano inviati utilizzando il tritolo. Il dispositivo, letto nell’aula bunker del carcere Pagliarelli dopo una camera di consiglio durata tre giorni, ribalta il verdetto di primo grado con cui gli imputati erano stati tutti condannati. La sentenza - le cui motivazioni verranno depositate entro 90 giorni - ha avuto l’immediato effetto di tranquillizzare la politica, ma provocherà ulteriori polemiche nei confronti della tesi ispiratrice del processo e dei magistrati che da anni la portano avanti dentro e fuori le aule di giustizia. Con un reato contestato - “violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti” - dal sapore astratto, ma che rimanda all’urgenza di comprendere uno dei momenti più terribili della storia della Repubblica, il biennio stragista 1992-1993.

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L'assoluzione di Dell'Utri

Tutti i vertici del Reparto operativo speciale dei carabinieri, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, sono stati assolti perché “il fatto non costituisce reato”. Per Marcello Dell’Utri, l’ex senatore palermitano e co-fondatore di Forza Italia, l’assoluzione invece è arrivata “per non avere commesso il fatto”. Per Bagarella la condanna passa da 28 a 27 anni, mentre vengono confermati i 12 anni inflitti in primo grado a Cinà. In realtà, un primo scricchiolio della tesi accusatoria si era già avvertito nel 2020 con l’assoluzione definitiva di Calogero Mannino. L’ex ministro del governo Andreotti, che aveva scelto il rito abbreviato, era accusato di avere dato l’input agli alti ufficiali del Ros affinché dialogassero con Cosa nostra. Diverso il ruolo di Dell’Utri: non nuovo ad accuse del genere, era già stato condannato in un altro processo per concorso esterno in associazione mafiosa. In quel caso, a essere sanciti dai giudici sono stati i suoi rapporti con Cosa nostra dagli anni '70 al 1992, come tramite e tesoriere per i pagamenti che Berlusconi elargiva alla mafia in cambio di protezione per sé e per la propria famiglia. Nella trattativa, invece, secondo i magistrati avrebbe avuto il ruolo di mediatore tra i padrini Corleonesi e il primo governo di Silvio Berlusconi nel 1994. Dopo la vittoria di Forza Italia, Dell’Utri avrebbe incontrato in due occasioni Vittorio Mangano, il boss di Porta Nuova e stalliere nella villa di Berlusconi ad Arcore, per discutere di alcune modifiche alle leggi contro la mafia. Richieste, quelle di Mangano, che sarebbero arrivate dritte a Berlusconi, suonando - secondo l’accusa - come minacce ai ruoli decisionali della vita pubblica. Per i giudici della corte d’Appello, però, l’ex senatore azzurro non avrebbe mai indossato l’abito da mediatore.

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Il verdetto di primo grado

La prima attesa sentenza sulla trattativa Stato-mafia era arrivata il 20 aprile del 2018. Al termine di un processo cominciato sei anni prima, nel 2012, con 228 udienze e oltre 1200 ore di dibattimento. Alla fine dei quali sono state pronunciate condanne per gli ex vertici dell’Arma dei carabinieri e i boss di Cosa nostra. Otto anni per l’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno. Dodici anni di carcere per il tenente colonnello del Ros Mario Mori e per il comandante Antonio Subranni. Stesso verdetto per l’ex senatore Dell’Utri e per il mafioso Antonino Cinà. La pena più alta era stata quella comminata a Bagarella, 28 anni. Il boss dei Corleonesi, oggi recluso al carcere duro, negli anni ‘90 fu colui che proseguì il piano stragista iniziato da Totò Riina. Nel processo di secondo grado appena concluso, l’accusa nei suoi confronti è stata rideterminata come “tentata minaccia pluriaggravata a corpo politico dello Stato”. Perché se è certo che la mafia abbia parlato, per la giustizia meno chiaro è chi avesse deciso di interpellarla e perché. Con la prescrizione si erano invece chiuse le posizioni di Massimo Ciancimino e del boss Giovanni Brusca, poi diventato collaboratore di giustizia e negli scorsi mesi tornato libero dopo 25 anni di carcere. Assolto dal reato di falsa testimonianza, senza ricorso in appello da parte della procura di Palermo, l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. Estinta per sopravvenuta morte la posizione dei boss di Cosa nostra Totò Riina, deceduto il 17 novembre 2017, e Bernardo Provenzano, morto il 13 luglio del 2016. 

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Il verdetto del maxi processo e l’uccisione di Salvo Lima

Ci sono due date simbolo, considerate lo spartiacque nella storia della trattativa tra mafia e pezzi dello Stato. Il 30 gennaio 1992 la corte di Cassazione conferma le condanne del maxi-processo istituito da Giovanni Falcone. Saltano il banco e le promesse, non mantenute, di un aggiustamento del processo: il verdetto è la pietra tombale per la mafia siciliana, per la prima volta riconosciuta da una sentenza definitiva come un’organizzazione con struttura verticale. La reazione di Riina e soci davanti agli ergastoli non tarda ad arrivare e il 12 marzo dello stesso anno - la seconda data da cerchiare in rosso - i killer uccidono con tre colpi di pistola Salvo Lima. Il politico che avrebbe dovuto cambiare le sorti del processo, ma anche il luogotenente in Sicilia del sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti.

Nel sangue di Mondello comincia ufficialmente il biennio stragista di Cosa nostra. Una nuova stagione in cui alle fredde esecuzioni con le armi da fuoco si preferiscono gli spettacolari attentati al tritolo. Tanto desiderosi di attenzione e sdegno, da non potersi spiegare, secondo i magistrati della procura di Palermo, solo con un desiderio di vendetta per le condanne e per le coperture politico-istituzionali mancate. Il disegno stragista si porta dietro segreti e ombre, emerse anche in altri procedimenti tra cui quello sulle bombe a Firenze e sull'uccisione del procuratore aggiunto Paolo Borsellino, che hanno portato diverse procure a ipotizzare l’esistenza di alcuni “mandanti esterni occulti”. Interrogativi alimentati anche da una frase pronunciata da Totò Riina mentre due agenti della polizia penitenziaria lo accompagnavano, nel 2013, in una saletta del carcere di Opera per assistere in video collegamento a un’udienza del processo Trattativa: “Io non ho cercato nessuno, erano loro che cercavano me”, disse il capo dei capi dopo vent’anni di silenzio.

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L’uccisione di Falcone e Borsellino

In un’Italia terrorizzata dalla reazione di Cosa nostra e già turbata dallo scandalo di Tangentopoli, il 23 maggio 1992 viene ucciso Giovanni Falcone. Investito, insieme alla moglie e agli agenti di scorta, dall’esplosione di 500 chilogrammi di tritolo piazzati sotto a un viadotto dell’autostrada A29 che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo. Lo Stato è in ginocchio e il Ros, con Mario Mori e Giuseppe De Donno, cercano di agganciare il sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. Con l’obiettivo di “cercare di catturare i latitanti”, disse in aula l’ufficiale dei carabinieri, sostenendo di avere agito senza input dall’alto. Per i pm, invece, quello sarebbe uno dei passaggi della trattativa ispirata da una politica preoccupata e inerme, che avrebbe avuto il suo ispiratore nell’allora ministro del Mezzogiorno Calogero Mannino. Appena 57 giorni dopo l’attentato di Capaci, una Fiat 126 verde e 90 chilogrammi di tritolo azionati a distanza viene fatta saltare in aria uccidendo Paolo Borsellino. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado, per i giudici quella è la risposta di Cosa nostra “all’invito al dialogo pervenuto a Vito Ciancimino”. Uno spiraglio - e un segnale di debolezza - da parte dello Stato, su cui i boss decidono di spingere “per ottenere maggiori vantaggi”. Il 15 gennaio 1993 in una villetta di via Bernini, a Palermo, viene arrestato dal Ros Totò Riina. Per due settimane, però, nessuno sorveglia e perquisisce l’abitazione. Particolare da cui è nato un processo conclusosi con l’assoluzione “perché il fatto non costituisce reato” nei confronti di Mori e del colonnello Sergio De Caprio, meglio noto come Ultimo. Il capo dei capi, secondo i pm palermitani, sarebbe stato venduto al Ros da Bernardo Provenzano, poi arrestato l’11 aprile 2006. Anche in quest’ultimo caso dopo circostanze controverse e un processo nato dalle dichiarazioni del pentito Luigi Ilardo, poi ucciso a Catania. Dopo la cattura di Riina, la stagione stragista non si ferma.

Cambiano gli interpreti mafiosi e i luoghi in cui vengono piazzate le bombe. Non più in Sicilia ma in Continente: tra il 27 maggio e il 28 luglio del 1993 si registrano il fallito attentato al conduttore tv Maurizio Costanzo, le stragi di via Georgofili a Firenze e quella di via Palestro a Milano, le autobombe a San Giovanni Laterano e San Giorgio in Velabro a Roma. Il 23 gennaio 1994 è la volta del maxi-attentato allo stadio Olimpico durante la partita di calcio Roma-Udinese. Circa cento carabinieri finiscono nel mirino, ma il congegno per attivare gli ordigni si inceppa e l’attentato fallisce. Tre giorni dopo Berlusconi annuncia la sua discesa in politica. Tutta Italia ne parla. Anche il boss palermitano Giuseppe Graviano: “Mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di Canale 5 - raccontò Gaspare Spatuzza, diventato collaboratore di giustizia - e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani”.

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