Nicola Ciuffreda. Crediti: Vivi.libera
Nicola Ciuffreda. Crediti: Vivi.libera

Foggia anni Novanta, Ciuffreda e gli altri delitti irrisolti

31 anni fa moriva l'imprenditore edile Nicola Ciuffreda. Come lui, Giovanni Panunzio, Francesco Marcone e Matteo Di Candia, uccisi dalla Società foggiana negli anni Novanta, tra omertà e silenzi che ancora oggi si respirano in città

Natalie Sclippa

Natalie SclippaRedattrice lavialibera

14 settembre 2021

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Il 14 settembre è una data particolare per Foggia: in questo giorno di 31 anni fa, è stato ucciso Nicola Ciuffreda, imprenditore edile. Otto colpi di pistola lo hanno raggiunto mentre si trovava in uno dei suoi cantieri, non lasciandogli scampo. La sua storia si intreccia con quelle di altre tre persone: Giovanni Panunzio, Francesco Marcone, Matteo Di Candia, altrettante vittime innocenti di mafia, uccise negli anni Novanta nel capoluogo di provincia pugliese. A tenere viva la loro memoria e a raccontare uno spaccato delle vicende cittadine che ne hanno accompagnato la morte sono oggi i familiari. Parlare con loro ha permesso di ricostruire alcuni fatti e decifrare il clima che si respirava in città. 

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Nicola Ciuffreda

Incontriamo Roberto, il figlio di Nicola Ciuffreda, in un bar di Foggia. Gli chiediamo di condividere con noi l’atmosfera che ha vissuto in quel 1990, che ha stravolto la vita della sua famiglia. “Non riesco a capire come siano arrivati a tanto. Ora che ho 50 anni, so di aver sbagliato, perché ho il rimpianto di essermi chiuso in me stesso, nel dolore della mia famiglia, arrabbiato visti gli esiti delle indagini”.

Al trauma della violenza, si aggiungono le conseguenze personali e sociali: “Doveva essere un segnale forte per gli altri imprenditori del settore. Abbiamo vissuto i tentativi di estorsione, ma mi aspettavo – al massimo – danni ai macchinari. Pensa che non avevamo stipulato l’assicurazione sulla vita, perché non ci immaginavamo un fatto di questo tipo”. Descrive i momenti delle intimidazioni, aggiungendo che suo padre aveva chiesto ad altri imprenditori se subissero le stesse pressioni. Tutti avevano smentito, tranne uno, che riesce a metterlo in guardia: “Non scherzare, quella è gente pericolosa”. 

"Alla perdita si aggiunge la solitudine. Tutti iniziano a evitarti, anche i familiari" Roberto Ciuffreda, figlio di Nicola

Che fosse gente realmente pericolosa, Roberto lo intuisce quella mattina del 14 settembre 1990. Gli arriva una chiamata e si precipita in ospedale, ma l’esito è il peggiore possibile. Da quel momento, iniziano altri problemi. “Alla perdita si è aggiunta la solitudine – continua – perché tutti iniziano a evitarti. Non solo gli estranei, i conoscenti, ma anche i familiari: nessuno ha chiesto se ci servisse qualcosa. Così, per quasi sei mesi la nostra vita si è bloccata. Poi abbiamo dovuto ricominciare: i cantieri, le consegne e i pagamenti non aspettavano”.

Un altro tassello importante in questi casi è la vicenda giudiziaria. “Siamo stati così delusi che ci siamo allontanati. In quel periodo sembravamo noi i delinquenti. Ci hanno controllato tutti i conti, provando a trovare un contatto che potesse smentire l’innocenza di mio padre. A un certo punto mi sono spaventato, perché mi ha chiamato persino il direttore di banca. La nostra reazione, poi, è stato un totale disinteresse: non sapevo neppure chi seguiva le indagini”. 

"Le indagini su mio padre non sono più andate avanti. Se non diventi una notizia della Rai, può morire chiunque"

Oltre che dai concittadini, Ciuffreda si è sentito abbandonato anche dalle istituzioni: “Ognuno ha le sue colpe. Lo Stato ha avuto una grande responsabilità. Ogni tanto qualcuno denuncia, ma il problema è che le indagini non sono andate avanti. Di mio padre si è riparlato durante la sentenza Panunzio, ma anche lì, è stato possibile incarcerare i colpevoli materiali solo grazie al memorandum dello stesso Panunzio”. Lo scalpore per l’omicidio Ciuffreda non rimbomba sulle tv nazionali. “Se non diventi una notizia della Rai, può morire chiunque”, conclude con tono amareggiato.

Una volta conclusi tutti i cantieri, si è trasferito in campagna, dove ha acquistato un’azienda agricola. Ci salutiamo con una considerazione sulla città: “Noi abbiamo un territorio stupendo. Il problema è che da Foggia si scappa. Non si vede più futuro, non si crede più che la situazione possa migliorare. Restiamo perché ci sono persone che hanno buttato fango su tutti, ma serve fare distinzione, se si vuole migliorare la città”. A Nicola Ciuffreda, insieme a Francesco Marcone, è intitolato il presidio di Libera Foggia.

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Giovanni Panunzio

Vuoi fare la stessa fine di Nicola Ciuffreda?”: questo si sente dire al telefono, circa due anni dopo, Giovanni Panunzio. Anche lui imprenditore nel settore del cemento. Viene ucciso il 6 novembre del 1992, la sera in cui si stava decidendo il nuovo piano regolatore cittadino. A ricordare la sua storia è Giovanna Belluna, la nuora. Ci accoglie in casa, felice che qualcuno “da fuori” voglia ascoltare quella storia degli anni Novanta. “Tutto è cominciato a dicembre del 1989. Arriva una telefonata, a cui rispondo proprio io. Dall’altra parte della cornetta, qualcuno dice: ‘Dite a don Giovanni di preparare due miliardi (di lire, ndr) prima di Natale, sennò farete una brutta fine’".

"Dite a Don Giovanni di preparare due miliardi di lire prima di Natale, sennò farete una brutta fine"

"All’inizio – prosegue Belluna – ho pensato a uno scherzo di cattivo gusto. Poi le minacce sono diventate sempre più frequenti. Giovanni ha cominciato a denunciare. Gli inquirenti gli avevano consigliato di scrivere chi si avvicinava, cosa gli si chiedeva. Dall’essere un tipo tranquillo e scherzoso, è diventato sempre più nervoso. Il 23 gennaio del 1990, una moto si affianca alla sua auto e gli puntano una pistola sul vetro. Spaventato, ci chiama per dirci di chiuderci in casa”.

"Giovanni sembrava aver capito che non era solo la delinquenza a volerlo morto, ma una parte della 'Foggia buona', dei colletti bianchi. Aveva capito di essere isolato" Giovanna Belluna - nuora di Giovanni Panunzio
Giovanni Panunzio. Crediti: Vivi.libera
Giovanni Panunzio. Crediti: Vivi.libera

Proprio grazie alle rivelazioni contenute nel suo taccuino, nel 1991 vengono arrestate 14 persone. “Da allora, la nostra vita non è stata più la stessa: ha comprato quattro macchine, per strada, solo insulti e paura, nemmeno i familiari venivano più a trovarci. A un certo punto ha smesso di prendere l’arma, di guidare l’auto blindata: sembrava avesse capito che non era solo la delinquenza a volerlo morto, ma anche una parte della 'Foggia buona', dei colletti bianchi. Aveva capito di essere isolato. Così, quella sera di novembre del ‘92, quando ci hanno detto che aveva avuto un incidente, credevamo fosse uno scherzo. Invece…”.

Nel maxi-processo Panunzio, per la prima volta, si parla di criminalità organizzata di stampo mafioso radicata sul territorio

Gli avevano sparato. Giovanna apprende la notizia mentre sta portando i figli a casa della madre, da un servizio su Rai1. Suo marito riesce a entrare in ospedale di forza, si frattura un braccio, ma capisce che per il padre non c’è più nulla da fare. “Da allora, abbiamo capito: Giovanni aveva la famiglia e le forze dell’ordine. Noi avevamo perso Giovanni e dovevamo affidarci agli inquirenti. Ma la paura era tanta e bisogna imparare a convivere con l’ansia. Io ero terrorizzata. Nonostante questo, ci siamo costituiti parte civile. Sapevo sarebbe stato difficile. Quello che non mi aspettavo è che continuassero a minacciare”.  

La vicenda giudiziaria, intanto, procede. Testimonianza chiave è quella di Mario Nero, che stava passeggiando con il suo cane e ha assistito all’omicidio. Anche grazie a lui vengono arrestati gli esecutori materiali. Nel maxi-processo Panunzio, per la prima volta, si parla di criminalità organizzata di stampo mafioso radicata sul territorio, da quel momento battezzata con il nome di Società foggiana. Nel 2015, è nata l’associazione “Giovanni Panunzio – Eguaglianza legalità diritti” che vuole contribuire a sradicare fenomeni come il racket, agendo anche a favore dell’inclusione.

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Francesco Marcone

Nel mirino della mafia foggiana non finiscono solo gli imprenditori, ma anche gli amministratori che decidono di non far finta di non vedere. Francesco Marcone è uno di loro. Direttore dell’Ufficio del registro, comincia a segnalare delle irregolarità, fino a denunciare, presentando un esposto in procura nel marzo 1995: truffe che muovevano miliardi di lire. Il rapporto con le forze dell’ordine è costante, tanto che parla con loro anche pochi giorni prima di quel 31 marzo 1995, quando gli sparano sulle scala di casa, al ritorno dal lavoro. “Mio padre era un funzionario, non un imprenditore o un magistrato. Secondo me, qualche dubbio ce l’aveva, perché ci ha raccomandato di guardare bene, prima di uscire di casa. Ma noi pensavamo che ci spaventassero e basta”, ci racconta Daniela Marcone, figlia di Francesco e vicepresidente di Libera. 

"Tutti pensano ‘Chissà che ha fatto?’, ma nessuno si pone la domanda al contrario. Come se le persone avessero voluto mantenere una distanza. Nella Foggia degli anni Novanta c’era molta omertà" Daniela Marcone 
Francesco Marcone. Crediti: Vivi.libera
Francesco Marcone. Crediti: Vivi.libera

Anche per la loro famiglia, intorno, è terra bruciata: “Tutti pensano ‘Chissà che ha fatto?’, ma nessuno si pone la domanda al contrario. Come se le persone avessero voluto mantenere una distanza. Nella Foggia degli anni Novanta c’era molta omertà. Per noi è un po’ una condanna, perché si rischia che le nostre storie vengano dimenticate”. Anche le indagini si arenano, nonostante la creazione di un piccolo gruppo nella società civile e di giornalisti locali che vogliono fare luce sul caso. La verità che Daniela appurerà molti anni dopo è sconfortante: “Quando ho ripreso in mano gli atti, ho scoperto che un anno e mezzo prima c’era stato un attentato a un altro alto funzionario, ma i due casi non furono messi in relazione. Gli esami balistici, condotti solo due anni dopo, hanno dimostrato che i proiettili dei due omicidi erano stati sparati dalla stessa arma. Come si poteva pensare di sconfiggere la mafia quando mancavano le risposte dalle istituzioni? Anche per questo il tribunale della città era chiamato il porto delle nebbie”. 

"Dobbiamo continuare a ravvivarne la memoria, perché non scompaiano sotto al fuoco dell’eterna emergenza" Daniela Marcone

Nonostante le iniziative e le richieste di seguire il caso, tra cui l’istituzione di un pool di magistrati, anche per la sua morte arriva l’archiviazione. Lucia Navazio, giudice per le indagini preliminari che voleva rigettare l’istanza di chiusura del faldone giudiziario, nel 2001 individua altre 50 questioni da approfondire, prorogando le indagini di altri sei mesi. Nel 2004 l’archiviazione definitiva. “Ho ricominciato a occuparmi di Foggia perché queste storie erano dimenticate – prosegue Daniela Marcone –. Vicino alla morte di mio padre c’è la mia e quella di tutta la mia famiglia. Dobbiamo continuare a ravvivarne la memoria, perché non scompaiano sotto al fuoco dell’eterna emergenza”. A Francesco Marcone sono intitolati la scuola di pubblica amministrazione della provincia, il presidio della città e un laboratorio di legalità a Cerignola. 

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Matteo Di Candia

Non sono solo questioni di soldi. Lo si intuisce bene dalla vicenda di Matteo Di Candia, pensionato foggiano, che il 21 settembre 1999 sta festeggiando il suo onomastico in un bar. Proprio lì intercetta la traiettoria dei proiettili sparati ad altezza uomo che avrebbero dovuto colpire un criminale, durante un agguato. Non siamo riusciti a parlare con i familiari, ma a Foggia gli è stata intitolata una stanza della sede dell’associazione Auser. La scelta è stata motivata così: “Quello di essere al posto sbagliato nel momento sbagliato è un cliché che accompagna ancora troppo spesso i nomi di molte vittime innocenti della mafia, uccidendole due volte, quasi a trasformare in una colpa il vivere la vita, semplicemente”. 

"Quello di essere al posto sbagliato nel momento sbagliato è un cliché che accompagna ancora troppo spesso i nomi di molte vittime innocenti della mafia"

Per essere uccisi, a Foggia, può bastare davvero poco. Per raccontare ci vuole coraggio. Anche per questo l’impegno di alcuni familiari è rivolto soprattutto ai giovani. Vanno nelle scuole e condividono la loro vicenda familiare che diventa così tassello per comprendere il clima di omertà e silenzio che si respirava allora e che continua ad annebbiare le sorti della città. 

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