Anom, i segreti del narcotraffico nelle chat

A usarlo erano esponenti di oltre 300 organizzazioni criminali, compresa la 'ndrangheta: si scambiavano messaggi per organizzare il traffico di droga, credendo di essere al sicuro dalle intercettazioni. L'Fbi leggeva tutto

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoRedattrice lavialibera

21 luglio 2021

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Ai potenziali clienti lo descrivevano come un prodotto disegnato "da criminali per criminali". Sulla carta era così e permetteva ai propri utenti di scambiarsi messaggi cifrati, quindi leggibili solo da emittente e destinatario, all’interno di una rete protetta. Uno strumento perfetto per organizzare il traffico internazionale di droga e discutere dei modi per riciclare i soldi guadagnati. Peccato che allo stesso tempo tutto finisse anche nelle mani dell'Fbi. È una storia da film quella di Anom: un servizio per le comunicazioni cifrate che ha portato all'arresto di 800 persone, al sequestro di 30 tonnellate di sostanze stupefacenti, e di 48 milioni di dollari in diverse valute, comprese criptomonete.

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Una storia raccontata in due documenti desecretati dal governo statunitense il 7 giugno scorso e che inizia nel 2018, quando l'Fbi mette a segno un colpaccio: recluta la persona che gli aprirà le chat di centinaia di narcotrafficanti, svelandone affari e modus operandi. L’uomo, o forse la donna, ha una condanna a sei anni di carcere per aver importato della droga, ma soprattutto è un nome noto nella distribuzione di dispositivi cifrati. Prodotti molto richiesti dalle organizzazioni criminali alla ricerca di mezzi di comunicazione che garantiscano di non poter essere intercettati dalle forze dell'ordine: si acquistano solo tramite determinati canali, comunicano solo tra loro, hanno funzioni limitate (niente telefonate e internet) e un costo che va dai 1500 ai 2mila dollari. Il contatto tra l'Fbi e l'insider arriva al momento opportuno. La futura fonte sta lavorando a un nuovo strumento, Anom, su cui ha investito soldi e ambizioni: punta a imporlo sul mercato colmando il vuoto lasciato dalla chiusura di Phantom secure, un servizio simile messo ko dall'arresto del suo amministratore delegato, Vincent Ramos, condannato a nove anni di prigione dopo aver ammesso che il sistema aveva "aiutato e incoraggiato l'importazione, l'esportazione e la distribuzione di sostanze illegali in tutto il mondo, ostacolato la giustizia attraverso l'occultamento e la distruzione di prove, e riciclato i ricavi della vendita di droga".

Viene proposto un patto. Gli agenti offrono uno sconto di pena e 120mila dollari di compenso, più le spese per la vita quotidiana e i viaggi (che ammonteranno a più di 59mila dollari), in cambio la fonte dovrà permettere all'Fbi di decifrare e salvare sui propri server i messaggi inviati tramite Anom e impegnarsi a diffondere il prodotto all'interno della rete criminale. L'affare è fatto. Il test inizia con tre persone legate alla criminalità organizzata australiana che, a fronte di una quota sui guadagni, vengono convinte a promuovere l’uso del prodotto: senza sospettare di nulla, vendono 50 dispositivi, un successo.

In poco tempo viene messo in piedi un sistema di distribuzione, i cui componenti principali sono ora indagati anche per aver fatto parte di un’organizzazione che vendeva servizi e device cifrati promuovendo il traffico internazionale di droga, il riciclaggio di denaro e l’ostruzione alla giustizia. Era suddiviso in tre livelli. Al vertice c’erano tre amministratori che avevano il controllo della rete, potevano avviare le nuove sottoscrizioni, creare l’accesso per i distributori, rimuovere gli account, cancellare e resettare i prodotti da remoto. Poi, i distributori cui spettava il compito di controllare gli agenti, ricevere i pagamenti e, sottratta una percentuale, inviarli alla casa madre. Alla base, gli agenti che contattavano i nuovi clienti per vendere il dispositivo con l’iniziale sottoscrizione, rinnovabile. Il prodotto arrivava con incluso un piano di circa sei mesi, il cui prezzo variava a seconda della zona geografica: 1700 dollari in Australia e Nord America, dai mille ai 1500 euro in Europa. Un ruolo importante nella diffusione di Anom lo svolgevano quelli che vengono definiti influencer, cioè figure criminali che hanno un potere significativo e un’influenza sugli altri membri dell’organizzazione: persone che si sono costruite anche una reputazione nel campo dei dispositivi cifrati e la sfruttano per influenzare il mercato, incoraggiando l’uso di determinati prodotti. Gli influencer, si legge nelle carte, hanno “un enorme impatto sugli utenti”. Tutti, per far crescere il prestigio del brand Anom, insistevano sul fatto che non fosse soggetto ad alcuna legge statunitense.

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L’Fbi, intanto, leggeva tutto. Leggeva, per esempio, le chat di due cittadini australiani, Domenico Catanzariti e Salvatore Lupoi, che il 4 gennaio 2019 si scambiavano la foto di una partita di centinaia di chilogrammi di cocaina, con sopra lo stemma di Batman, discutendone il prezzo. Leggeva anche di come i narcotrafficanti si informassero sulla presenza o meno di funzionari corrotti nel porto di Hong Kong per far passare un carico di droga nascosto in una bananiera. O di una spedizione organizzata nell’ottobre 2020 dall’Ecuador al Belgio, infilando dischetti di cocaina nelle scatolette di tonno. Dall’ottobre del 2019 al maggio del 2021 l’Fbi è riuscita a catalogare più di 20 milioni di messaggi da un totale di 11.800 dispositivi localizzati in 90 paesi. Nell’ultimo mese Anom contava circa novemila utenti attivi: un successo possibile grazie anche allo smantellamento di due servizi similari, EncroChat e Sky Global, a seguito di altre indagini. Il più alto numero di utilizzatori si trovava in Germania, Olanda, Spagna, Australia e Serbia. Facevano parte di oltre 300 organizzazioni criminali, inclusa quella italiana.

L’operazione, condotta dall’Fbi in collaborazione con l’Europol e la polizia australiana, non ha coinvolto le forze dell’ordine italiane. Nessun cittadino italiano, residente nel nostro Paese, è stato arrestato. Ma Anna Sergi, senior lecturer in Criminologia dell’università di Essex (Regno Unito), non esclude che presto possano partire indagini anche in Italia visto che molte persone fermate in Australia “hanno cognomi noti”. Si tratta di esponenti della Aussie ‘ndrangheta, “l’unica mafia presente nell’isola”. “Alcuni – aggiunge Sergi – sono nati e cresciuti in Australia, altri sono nati in Italia ed emigrati in Australia. Hanno legami con la Calabria e con altre organizzazioni criminali: internazionalità oggi necessaria per continuare a giocare un ruolo di primo piano nel traffico di droga”. Nicholas I. Cheviron, agente dell’Fbi che ha lavorato all’indagine, spiega che l’obiettivo era distruggere la fiducia dei criminali in questi sistemi dimostrando che le autorità riescono a infiltrarsi pure lì. Anche se, come spesso accade, a essere decisivo è stato il fattore umano. 

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