Alessandra Dino: "Le donne di mafia non sono un universo a parte"

La professoressa Dino, ordinario di Sociologia della devianza all'Università di Palermo, avverte: "Occorre agire prima che le mafie riconoscano alle donne spazi di partecipazione"

Marika Demaria

Marika DemariaGiornalista

5 marzo 2021

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Le donne di mafia vivono una normalità paradossale, in bilico tra senso di appartenenza e non. Quando la loro conflittualità interiore deflagra e "prendono coscienza della condizione di minorità e della violenza subita, il conflitto che si genera può aprire spiragli verso possibilità di fuoriuscita", spiega Alessandra Dino, ordinario di Sociologia della devianza all’Università di Palermo. Che avverte: "Occorre agire prima che le mafie comprendano la pericolosità dell’attuale esclusione femminile e riconoscano alle donne spazi di partecipazione".

Professoressa Dino, come si possono raccontare i profili identitari delle donne nei contesti mafiosi?

"Le donne di mafia sperimentano in maniera amplificata rispetto alle altre donne l’esclusione dai luoghi di potere, la violenza e la negazione dei diritti"

Partirei dal fatto che non è corretto parlare di donne di mafia tout court, quasi che quello mafioso fosse un sottomondo isolato e omogeneo e appartenervi fosse come indossare un vestito. Appartenere al contesto mafioso non esaurisce l’identità di queste donne né determina univocamente il loro agire, che invece si esplica in modi diversi. L’utilizzo di simili semplificazioni rischia di banalizzarne il ruolo, dipingendole spesso come fragili vittime del sistema. Le donne svolgono compiti importantissimi per la sopravvivenza delle mafie (anche al di là del contributo alle attività criminali): l’educazione dei figli, il rapporto con il sacro, la gestione dei processi comunicativi e le relazioni verso l’esterno. Quella in cui vivono è però una normalità paradossale alla quale si adeguano, pur con forti conflitti, sperimentando, in maniera amplificata rispetto alle altre donne, l’esclusione dai luoghi di potere, la violenza e la negazione dei diritti.

Alessandra Dino
Alessandra Dino

Da anni lei si occupa di questa tematica. A che punto siamo?

“Per loro è difficile riconoscersi come vittime di violenza in un contesto che l’ha resa normale quotidianità”

Una prima riflessione riguarda la frammentarietà e la tardività di questi studi, spesso condotti da donne, come se fosse una questione da risolvere entro recinti definiti e settoriali. Il soffermarsi solo sulle singole, pur interessantissime, storie rischia poi di far perdere l’entità delle dimensioni del problema. Occorre partire dal nesso asimmetrico che lega maschile e femminile, donne e potere, violenza e diritti. Prestare attenzione alla forza rigenerativa dei linguaggi nelle transizioni biografiche da dentro a fuori le mafie. Occorre far luce sulla violenza di cui le donne di mafia sono oggetto. Sappiamo che è una menzogna, costruita ad arte, la credenza che nelle mafie "i bambini e le donne non si toccano". Dagli studi emergono molteplici casi di violenza (anche sessuale) praticati nelle famiglie di mafia. In questi contesti, le donne hanno maggior difficoltà a denunciare, poiché farlo le espone a gravissimi rischi e perché è ancora più difficile per loro riconoscersi vittime di violenza in un contesto che ha reso la violenza normale quotidianità.

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All’interno dei contesti mafiosi, le donne sono vittime?

Non tutte. Quello che le accomuna è però la scomodità di una posizione di appartenenza e non appartenenza. Devono sapere e far finta di non sapere, partecipare ma lasciare il proscenio alle figure maschili. Vivendo dall’interno quei contesti, sanno riconoscere illegalità e legalità e decidere da che parte stare. La sottovalutazione dei loro ruoli permane, però, anche nel mondo della giustizia. I dati Istat ci dicono che, pur essendo elevato il ruolo delle donne intestatarie di aziende riconducibili alle mafie, la percentuale di quelle che sono condannate per 416bis (associazione mafiosa, ndr) è molto bassa. Viene in mente l’antico escamotage del favoreggiamento che nel passato ha garantito l’impunità a molte donne, pur pienamente coinvolte in attività illegali. Ma nonostante aumentino gli spazi delle donne nella gestione degli affari economici, i rapporti di potere faticano a cambiare. Prendiamo il caso di Giusy Vitale (prima donna capo mandamento nella storia della mafia, poi pentitasi per amore dei suoi figli, ndr), la "femmina cattiva": pur avendo un ruolo di primo piano in Cosa nostra subisce violenza in famiglia e deve farsi accompagnare da un uomo per partecipare alle riunioni della Commissione. Direi quindi che, se non è corretto sostenere che le donne siano inconsapevoli delle loro azioni, non sempre hanno coscienza della condizione di minorità e della violenza subita. Quando ciò accade, il conflitto che si genera può aprire spiragli verso possibilità di fuoriuscita.

Come nel caso del protocollo Liberi di scegliere?

Non nego l’utilità del progetto pur nutrendo delle perplessità rispetto ad alcuni automatismi presenti nella delibera del Consiglio superiore della magistratura (Csm) del 2017 sulla tutela dei minori nel contrasto alla criminalità organizzata. Non credo proprio che i figli ereditino il Dna mafioso (che peraltro non esiste). Sappiamo che la mafia è un fenomeno transclassista: non esistono i figli di mafia tout court. Ascoltando le parole di questi ragazzi emerge spesso il desiderio di essere accettati per quello che sono, includendo la possibilità di essere "figli di", di essere diversi dai loro padri senza per questo doverli rinnegare. Quello che dobbiamo chiederci è se siamo preparati ad accogliere questa complessità e a dare un’effettiva alternativa – non una risposta emergenziale – a queste donne e a questi figli, cercando di comprenderne anche le contraddizioni. Bisogna agire sulle singole storie, tenendo conto delle situazioni da cui nascono e offrendo soluzioni ad personam, senza perdere di vista la questione più ampia della giustizia sociale e della disparità tra ricchi e poveri.

Le stragi, Cosa nostra e la forbice sociale

Esiste una forbice sociale anche nei contesti di mafia?

Il processo di polarizzazione della ricchezza e del potere attraversa anche i contesti mafiosi: le mafie attuali hanno sia la coppola e la lupara, sia il doppiopetto. In quest’ultimo caso, le donne sono coinvolte nelle attività criminali per le loro elevate competenze professionali. Questo determina un ulteriore pericolo di assimilazione. Occorre allora agire prima che le mafie comprendano la pericolosità dell’attuale esclusione femminile e riconoscano alle donne spazi di partecipazione. Spazi che le donne potrebbero decidere di occupare, coltivando l’illusione di essere libere.

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