Migranti in protesta per denunciare le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere dopo che il 23 dicembre 2020 un incendio ha distrutto il campo di Lipa. Credits: Valerio Muscella e Michele Lapini
Migranti in protesta per denunciare le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere dopo che il 23 dicembre 2020 un incendio ha distrutto il campo di Lipa. Credits: Valerio Muscella e Michele Lapini

Calci e pugni per un tozzo di pane. La vita a Lipa

Dopo l'incendio scoppiato il 23 dicembre scorso la situazione nel campo profughi bosniaco è diventata insostenibile: in 15 in container senza luce né fogne

Sara Giudice

Sara GiudiceGiornalista Piazzapulita-La7

13 gennaio 2021

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La fila per prendere un tozzo di pane nel campo profughi di Lipa è interminabile. Un tè caldo, uno yogurt, delle scatolette di tonno. La tensione si taglia col coltello, la polizia bosniaca esibisce il manganello e intima ai migranti di restare composti nella fila, uno per volta. Volano calci e pugni per accaparrarsi per primi il tozzo di pane della giornata. Nevica nel campo di Lipa, il freddo è intollerabile e i migranti, per lo più giovani afghani e pakistani, hanno addosso delle coperte di lana, dei sandali in plastica o della scarpe malridotte. Si scatena presto una tormenta di neve ma l'attesa per quel pasto caldo non li fa arretrare, attendono in fila il loro turno.

Trieste, a piedi verso l'Europa 

Il 23 dicembre 2020 questo grande campo profughi sperduto tra i boschi della Bosnia ha preso fuoco e per i migranti le condizioni di vita sono diventate ancora più insostenibili. Vivono in quindici dentro container che dovrebbero essere utilizzati come bagni. Non c'è fognatura, non c'è elettricità, non c'è più alcuna dignità. La doccia è un tubo fognario che esce dal terreno. Bisogna camminare circa dieci minuti per arrivarci e molti portano con sé della taniche per fare rifornimento. Questo scarico di acqua sporca viene utilizzato per lavarsi e per bere l'acqua, nonostante non sia potabile. I ragazzi ci mostrano il cartello: "no drinking water" (acqua non potabile in inglese, ndr). 

Uno scarico di acqua sporca viene utilizzato per lavarsi e bere, anche se non è potabile 

Mia viene dall'Afghanistan, si avvicina intimidito, forse prova vergogna. "Non me la sento di lavarmi qui all'aria aperta, non ce la faccio, fa troppo freddo. Cosa cambia ormai, che siano venti o venticinque giorni che non mi lavo, non mi cambia più niente ormai". Il suo volto è segnato profondamente dallo sconforto e dalla rassegnazione.

Vivere in Afghanistan, perseguitati dai talebani

Mia ci racconta dell'Afghanistan, della sua vita precedente. Sono sei mesi che vive a Lipa, in attesa della primavera e di temperature più umane che gli permettano di tentare un'altra volta il Game, così chiamano il tentativo di attraversare i confini che separano i profughi dal loro sogno di una vita migliore che ha come unica destinazione l'Europa. Ci mostra le sue foto, ha due figlie piccole a cui ha promesso soldi per poter studiare. In Afghanistan era un poliziotto perseguitato dal regime talebano. Per vendicarsi, i talebani gli hanno ucciso il padre. Quando ci mostra la foto sul telefonino non riesce più a trattenere le lacrime: "Perché non se la sono presi con me, perché hanno ucciso proprio lui?".

In Afghanistan era un poliziotto perseguitato dal regime talebano. Per vendicarsi, gli hanno ucciso il padre

I capannoni del campo sono ormai degli scheletri bruciati, così come i letti a castello, tutti ammassati uno accanto all'altro, ci ricordano che prima dell'incendio ci hanno dormito degli esseri umani, circa un migliaio, che ora non trovano pace né un luogo caldo dove poter andare. Li vediamo camminare nella neve, in cerca di un riparo qualsiasi. Il campo di Lipa è stato scelto proprio perché così lontano da ogni centro abitato, i bosniaci hanno chiesto apertamente al governo e alle municipalità di non avere tra i piedi i disperati in fuga. Mia continua a starci accanto, vuole portarci dentro a quel che resta del campo. Prestiamo molta attenzione perché la polizia non vuole giornalisti che riprendano le condizioni di vita dei migranti. "Venite, venite a vedere: c'è un ragazzo che ha bisogno di andare subito in ospedale".

Ci voltiamo e vediamo un gruppetto di persone, poco più che ventenni, che ci aprono la porta di un piccolo container dove stanno riposando in alcuni sacchi a pelo circa quindici persone. "Toglietevi le scarpe per favore, noi qui ci viviamo, ci dormiamo". Li seguiamo fino alla fine del piccolo "rifugio", fino a scoprire il volto di Ekram, un ragazzo di ventitré anni. È pakistano e ha delle cicatrici profonde sul braccio, ricoperto da una benda. "Sta arrivando il dottore", dicono ad alta voce i migranti dentro il container. 

A un certo punto entra un giovane con una cassetta di primo soccorso, lo chiamano il “dottore” ma dottore non è per davvero. Si chiama Imtiaz, ha ventitré anni anche lui e ha imparato a pulire le ferite in Pakistan. "L'ho visto fare qualche volta", dice. "Ma il mio amico ha bisogno di un dottore, di un ospedale, lo abbiamo chiesto tante volte ma nessuno ci ha aiutati, mai. Non so se sto facendo la cosa giusta ma ci provo, lo aiuto”.  

Molti che camminano è il terzo numero de lavialibera dedicato alle migrazioni 

Bruciare vivi nel campo di Lipa

Ekram Sahel, 23 anni, del Pakistan, mostra le ferite causate dall'incendio che ha distrutto il campo di Lipa il 23 dicembre 2020. Credits: Valerio Muscella e Michele Lapini
Ekram Sahel, 23 anni, del Pakistan, mostra le ferite causate dall'incendio che ha distrutto il campo di Lipa il 23 dicembre 2020. Credits: Valerio Muscella e Michele Lapini

Imtiaz si siede accanto all'amico ferito e inizia a scoprire la benda, lentamente, fino a liberargli completamente  il braccio e a pulire la ferita con il mercurio cromo. Il volto di Ekram si riempie di smorfie di dolore, capiamo la gravità della situazione. Ekram ha un'ustione importante al braccio che non è per niente in buone condizioni. Le cicatrici sono due, la prima se l'è procurata in Pakistan mettendo il piede in un posto sbagliato, la seconda è una ferita fresca provocata proprio lì, nel campo di Lipa, a seguito dell'incendio scoppiato il 23 dicembre.

"L'abbiamo visto bruciare sotto i nostri occhi", ci dicono gli amici, che si sentono impotenti. Anche loro si trovano da sei mesi in quel campo lontano da ogni forma di vita. "Per noi la cosa più importante è riuscire a superare l'inverno e riprovare a passare, ora non riusciamo, moriremmo di freddo nei boschi. Pensare che eravamo arrivati fino in Italia".

 

Migranti come pacchi, le violenze della polizia croata e le responsabilità dell'Italia 

Solo pochi mesi prima il loro desiderio più grande stava, infatti, per esaudirsi, ma è stato spezzato al confine italiano dove la polizia ha consegnato i migranti alle autorità slovene che a loro volta, attraverso la Croazia, li hanno rispediti in Bosnia. Come fossero pacchi, rifiuti da smaltire e di cui liberarsi presto, sfruttando la fragilità e l'instabilità politica di un luogo come la Bosnia dove gli invisibili diventano numeri e la sofferenza non fa più alcun rumore.

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