Grande sorella Cina

Tra Cina e Usa, occorre trovare una terza via europea, che consideri i nostri dati non un'arma ma un bene comune

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoRedattrice lavialibera

7 luglio 2020

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Un’app con cui messaggiare con gli amici, scambiare soldi, prenotare il ristorante, o acquistare un paio di scarpe. Se vi suona familiare è perché da tempo Mark Zuckerberg, proprietario di Facebook, Instagram e WhatsApp, sta lavorando in questa direzione con l’obiettivo di creare un’entità autarchica in cui trovare tutto ciò che ci serve. Ma la super piattaforma a cui Zuck ambisce per avere più dati sulle nostre abitudini non è un’idea originale, bensì un clone di WeChat: un’applicazione che negli ultimi anni è diventata la memoria storica dei gusti, delle idee e dei consumi di un miliardo di cinesi, nonché la più popolare della Cina. Ed è verso la grande sorella Cina che il giornalista Simone Pieranni nel suo ultimo libro (Red Mirror, Laterza), suggerisce di puntare i riflettori per capire cosa ci riserva il domani.

Qui si sta delineando il nostro futuro. Non solo perché la Repubblica popolare è all’avanguardia su tutte le ultime tecnologie, grazie pure al fatto che le sue aziende possono testarle e affinarle liberamente sulle persone, all’interno dei confini cinesi così come in Africa, dove la Cina investe in termini economici e politici. Ma anche perché è in grado di influenzare le tendenze globali. Quando discutiamo di città intelligenti, ad esempio, dovremmo guardare i quartieri controllati da Terminus, impresa con sede a Pechino: dei sensori tengono traccia del livello di inquinamento e del consumo energetico di palazzi e strade, mentre telecamere a ogni angolo controllano i movimenti di residenti o semplici passanti.

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Sono tecnologie che possono diventare uno strumento per migliorare la vita delle persone, o un’arma nelle mani di governi e aziende private, come accade oggi. Se si parla di governi, il caso è quello cinese: lo Stato si serve delle nuove tecnologie e dei dati raccolti per controllare meglio la popolazione. In tema di aziende, invece, il riferimento è alle imprese statunitensi che rivendono le informazioni in loro possesso alle agenzie pubblicitarie, interessate a conoscere le nostre consuetudini per offrirci la réclame giusta nel posto giusto. Ecco perché, secondo Pieranni, sarebbe importante trovare una terza via europea, soprattutto adesso che il coronavirus potrebbe diventare un pretesto per avallare nuovi strumenti di sorveglianza. Anche di questa tendenza ne possiamo osservare i prodromi in Cina, dove una società di riconoscimento facciale ha dichiarato di aver sviluppato un modo di individuare e identificare le persone con febbre grazie al ministero dell’Industria e della Scienza. Ma non va tanto meglio da noi visto che nelle scorse settimane uno dei nostri principali quotidiani ha presentato un braccialetto elettronico che suona quando si è troppo vicini a un’altra persona come "il gadget dell’estate". Occorrerebbe elaborare una strategia complessiva, partendo da una considerazione: i nostri dati sono un bene comune.

Da lavialibera n° 3 maggio/giugno 2020

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