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Mauro Berruto: "La scuola italiana bocciata nello sport"

Intervista a Mauro Berruto, allenatore di pallavolo e autore di un manifesto per salvare lo sport che ha raccolto l'adesione di molti campioni

Lucilla Andreucci

Lucilla AndreucciResponsabile settore Sport di Libera

3 novembre 2020

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"Ho un amore incondizionato per lo sport, ma anche un debito: mi ha permesso di diventare la persona che sono". Mauro Berruto, torinese, 51 anni, una laurea in filosofia e una vita da allenatore di pallavolo, costruttore di squadre. Partendo dal Cus Torino come vice in serie A2, ha seguito tanti club non solo italiani, come la nazionale finlandese. Dal 2010 e per cinque anni è stato commissario tecnico della nazionale maschile di volley. Nel 2012 la medaglia più bella: il bronzo nei Giochi olimpici di Londra. Poi un’esperienza come direttore tecnico di una disciplina molto particolare: il tiro con l’arco.

“Gli sportivi che hanno la fortuna di vivere un villaggio olimpico dovrebbero farsi ambasciatori di quella possibilità reale di vivere nell’uguaglianza”

Berruto ha appena redatto un manifesto — Sportivi - L'Italia che si muove — per salvare lo sport in questo momento difficile, che ha già raccolto l'adesione di molti campioni. Di cosa potevamo parlare con una persona così? Della forza dello sport e della capacità di cambiare il mondo. A partire da ciascuno di noi, e soprattutto dalla scuola. "Sì, lo sport è uno strumento potentissimo, ha una straordinaria capacità di ispirare, di essere un linguaggio veramente universale, capace di arrivare ovunque. Anche nei posti più sperduti trovi un ragazzino con una maglia di calcio, con un cognome di un giocatore sulla schiena. Ecco, il proprietario di quel nome ha una responsabilità: quella di poter comunicare qualcosa a quel ragazzo, quella ragazza, e con quel che dice e fa magari essergli d’ispirazione. Mi piacerebbe che gli atleti diventassero più consapevoli di questa loro enorme potenzialità".

Assunta Legnante, la ragazza con la luce dentro

Cominciamo da una cosa bella, la più bella che ti è capitata.
L’ho vissuta dentro il villaggio olimpico, la cosa più vicina all’idea di paradiso. È un posto ideale, perfetto, dove sei a confronto con persone che sono lì grazie al talento e alla fatica che ha permesso al loro talento di realizzarsi. Non percepisci differenze di razza, religione. E allora pensi che esiste davvero un mondo così. Gli sportivi che hanno la fortuna di vivere un villaggio olimpico dovrebbero farsi ambasciatori di quel paradiso, di quella possibilità reale di vivere nell’uguaglianza. 

Come si costruisce una squadra?
Si parte dal desiderio di volerla costruire. Sembra banale ma è importante scegliere bene i propri collaboratori, avvalersi delle migliori competenze. E poi ci deve essere la capacità di relazionarsi con le persone che intorno a te lavorano allo stesso obiettivo. Viviamo in un contesto più orientato all’azione del singolo, come se agire in maniera individuale fosse più efficace. Abituarsi a una visione collettiva, che metta in condizione di esaltare anche il talento individuale, vuol dire entrare in un’altra dimensione, un po’ magica.

Cosa ti ha lasciato l’esperienza di allenatore?
La consapevolezza che c’è sempre qualcosa che non puoi allenare. La bellezza di preparare te stesso a reagire a quello che non puoi prevedere. L’inallenabilità è una delle cose più affascinanti dello sport ed è il discrimine tra i campioni e gli atleti normali. I campioni sono quelli che nell’imprevisto sanno fare la differenza, sanno interpretare il momento, anche se completamente diverso da quello che avevano programmato.

Anche adesso che non stai allenando, non hai smesso di occuparti di sport, di raccontarlo soprattutto. Perché?
Considero lo sport una cultura, né più né meno di altre espressioni considerate più nobili. Per questo penso che dobbiamo restituirgli la dignità che merita. Non per un tributo a una disciplina che ha mille ricchezze, ma perché ne abbiamo bisogno tutti, dello sport e dei suoi valori neanche tanto nascosti. Sottovalutati magari, ma esistenti, presenti, importanti. Durante il lockdown ho pubblicato alcune storie di sport e ho ricevuto telefonate di docenti di storia e geografia che mi chiedevano di poterle utilizzare per le loro lezioni.

In che modo?
Se tu racconti ai ragazzi la primavera di Praga partendo dalle vicende di Emil Zatopek (tre ori ai Giochi olimpici di Helsinki nel 1952) entri in una vicenda storico-politica con una chiave d’accesso che non è paragonabile ad altre. E gli esempi possono essere tantissimi, a cominciare dal pugno alzato sul podio olimpico di Tommie Smith e John Carlos, Messico 1968. La forza di questi esempi è dirompente, come dimostrano anche le recenti prese di posizione dei giocatori americani dell’Nba che hanno addirittura fermato lo spettacolo per protestare contro il razzismo e le violenze sui neri. Personaggi così famosi, come il campione di F1 Lewis Hamilton, che pure si è inginocchiato per protesta prima di un gran premio, possono davvero incidere sulla storia e cambiarla.  

D’altronde, hanno un seguito così immenso perché sono i protagonisti del più grande spettacolo del mondo.
Certo, lo sport è anche spettacolo, come un’opera d’arte. Quando produci una performance che mette in relazione migliaia di persone che si emozionano e vivono all’unisono quel momento stai facendo cultura. Passami la battuta, ma non ho mai visto nessuno abbracciarsi di gioia davanti alla Gioconda. 

Di tutto questo patrimonio, quanto arriva nella scuola?
Pochissimo, purtroppo. È dal secondo dopoguerra che la scuola ha deliberatamente deciso di allontanarsi dal mondo dello sport, che io chiamo cultura del movimento, che porta a essere cittadini migliori non solo per quei valori che la pratica sportiva insegna, come regole, inclusione, educazione, ma soprattutto perché stimola i ragazzi a prendersi cura di sé e quindi della propria comunità. In più, proprio lo sport è il principale generatore di risparmio al servizio sanitario nazionale: un ragazzo o una ragazza che lo pratica ha parecchie possibilità di crescere in modo più sano. Per fortuna c’è una rete straordinaria di associazionismo sportivo, fatta anche di innumerevoli volontari, che in Europa non ha pari e che prova a colmare le lacune, le drammatiche mancanze di cui è responsabile il nostro sistema educativo nazionale.

“È dal secondo dopoguerra che la scuola ha deliberatamente deciso di allontanarsi dal mondo dello sport. Serve subito una rivoluzione culturale per l’educazione fisica”

Cosa bisognerebbe fare?
Serve subito una rivoluzione culturale che restituisca alla scuola la dignità dell’educazione fisica. È tornata l’educazione civica tra le materie di studio: ecco, mi piacerebbe che ci fosse un mix tra queste due educazioni. 

Si moltiplicano i casi di organizzazioni criminali che si infiltrano nei campi da gioco, nelle curve degli stadi, nelle società sportive. Come sta lo sport italiano?
Il nostro sport è in grado di esprimere grandi qualità. Ma ha un potenziale che produce meno di quello che potrebbe, c’è un lavoro culturale profondo da fare. E poi, sì, dobbiamo assolutamente tutelarlo da un certo pensiero criminale. Corriamo un rischio gigantesco se non monitoriamo con attenzione. Penso proprio a quei luoghi dello sport che in molte periferie riescono a portare quel presidio di legalità e bellezza che tiene lontani i ragazzi dai pericoli per se stessi e per la comunità. Nei campetti da calcio, basket, pallavolo non c’è nessuno che si chiede da dove vieni, l’obiettivo è fare un goal, un canestro. Ecco, lo sport difende un’identità collettiva. Anche per questo dobbiamo difenderlo.

Da lavialibera n°5 settembre/ottobre 2020

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