Tom Fisk/Pexels
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Addio Green deal: sulla riforma della Pac vince la lobby agricola

Venerdì scorso il Parlamento europeo ha votato una riforma della Politica agricola comune europea che riporta l'Ue indietro di anni e mina le basi della transizione verde del continente. Fondamentale, assieme ai Paesi dell'Est, il voto dell'Italia

Francesca Dalrì

Francesca DalrìGiornalista, il T quotidiano

Aggiornato il giorno 10 novembre 2020

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Tra le notizie eclissate dall’infodemia da Covid-19 ce n’è una di rilevanza strategica per il futuro dell’Europa e dei suoi cittadini. Venerdì scorso (23 ottobre) il Parlamento europeo ha approvato una riforma della Politica agricola comune (Pac) che la coalizione italiana Cambiamo agricoltura – così come le principali associazioni ambientaliste internazionali – definisce “una pietra tombale sull’avvio di una vera transizione ecologica delle filiere agricole e zootecniche in Europa”. A favore solo di grandi compagnie e pochi ricchi latifondisti (solo il 6% dei fondi sono stati destinati a piccole e medie imprese), la riforma assegna una quota minima di fondi per la transizione ecologica.

Istituita nel 1962 per garantire la sicurezza alimentare nel continente e favorire la transizione agroindustriale, la Pac costituisce oggi il più grande piano di sussidi al mondo. Con 387 miliardi di euro in sette anni, rappresenta oltre un terzo del budget europeo (il 38% nel 2018), con un peso sui conti dei cittadini di 135 euro a testa all’anno.

“La lobby dell’agrobusiness, assieme all’industria dei pesticidi e ai giganti dell’alimentare, ha per mesi fatto di tutto per impedire di allineare la riforma della Pac agli obiettivi del Green deal”, denuncia la ong Corporate Europe observatory in un rapporto pubblicato a inizio ottobre in vista del voto all’Europarlamento. E ancora: “L’attuale modello agricolo europeo stanzia miliardi di euro per alimentare il cambiamento climatico, distruggere la biodiversità e mettere persino a rischio la sopravvivenza degli agricoltori”.

I nodi principali della riforma

La riforma (prevista ogni sette anni) andrà a sostituire il precedente pacchetto 2014-2020. Una prima proposta di regolamento era stata avanzata nel 2018 dall’allora commissario europeo Jean-Claude Juncker che, pur carente sul fronte ambientale, prevedeva norme come l’istituzione di un tetto obbligatorio massimo di 100mila euro per i sussidi erogabili a una singola compagnia. Un tetto troppo alto, a detta degli ambientalisti, ma pur sempre un primo passo per contrastare lo strapotere dei grandi imprenditori agricoli che meno di tutti necessiterebbero dei finanziamenti previsti dalla Pac. Le strategie Farm to fork e Biodiversità di Von der Leyen hanno alzato ulteriormente l’asticella sugli obiettivi ambientali da centrare.

"La riforma votata dall’Europarlamento non solo ignora il Green deal, ma annacqua pure il regolamento del 2018, riportando le lancette della Pac indietro di un decennio"Damiano Di Simine - coordinatore del comitato scientifico di Legambiente Lombardia e membro di Cambiamo agricoltura

Venerdì scorso, dunque, l’europarlamento aveva il compito di votare la proposta della Commissione, ma il blocco di emendamenti frutto dell’accordo tra i tre gruppi di maggioranza ha respinto tutte le proposte della commissione Ambiente come il taglio dei sussidi agli allevamenti intensivi e lasciato fuori dalla Pac gli obiettivi del Green deal. “La riforma votata dall’Europarlamento non solo ignora il Green deal, ma annacqua pure il regolamento del 2018, riportando le lancette della Pac indietro di un decennio”, è il commento lapidario di Damiano Di Simine, coordinatore del comitato scientifico di Legambiente Lombardia e membro di Cambiamo agricoltura.

Teresa Bellanova, ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali da settembre 2019
Teresa Bellanova, ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali da settembre 2019

Innumerevoli le critiche nel merito arrivate dal mondo ambientalista. Tra le principali: rinvio dell’entrata in vigore degli aiuti ambientali al 2025; riduzione dal 10 al 3% della quota di territorio da destinare a ecosistemi naturali (stagni, siepi e zone umide, come previsto invece da Biodiversità 2030); mantenimento dei sussidi secondo meccanismi come il maggior numero di capi allevati o di ettari coltivati.

I finanziamenti legati agli eco-schemi non sono stati vincolati a criteri ambientali, ma a logiche economiche (blindando il 60% dei budget nazionali dei pagamenti diretti per il sostegno al reddito degli agricoltori). In aggiunta, il Consiglio sull'Agricoltura, che raggruppa i ministri del settore come Bellanova, ha spinto perché la soglia di risorse dedicata a questi meccanismi, prima prevista al 30%, fosse abbassata al 20. Infine, a gestire la mole di denaro pubblico prevista dalla Pac saranno ora i singoli Stati membri (come già prevedeva la riforma Juncker). Al contempo, però, la riforma impedisce ai Paesi di adottare criteri più stringenti nella distribuzione delle loro quote fondi.

Il voto degli eurodeputati e il ruolo fondamentale dell’Italia

La riforma è passata grazie a un accordo siglato tra i tre principali gruppi europarlamentari: il partito popolare europeo (Ppe, di centro-destra), l’alleanza progressista di socialisti e democratici (S&D, di centro-sinistra) e Renew Europe (costituito nel 2019, di cui per l’Italia fa parte Italia viva): 425 voti a favore, 212 contrari e 51 astenuti.

Come ben si comprende dall’analisi realizzata da Legambiente, alla fine è stato decisivo il voto dei Paesi dell’Est e dell’Italia (solo sette europarlamentari italiani hanno votato contro). “Ci ripetono sempre che a livello europeo l’Italia non conta più niente: beh, questa volta ha contato eccome – commenta amareggiato Di Simine –. Prima con i sovranisti ci preoccupavamo dei Paesi dell’Est, ora l’Italia si è messa in una posizione pure peggiore”.

Elaborazione Legambiente sul voto all'Europarlamento di venerdì 23 ottobre
Elaborazione Legambiente sul voto all'Europarlamento di venerdì 23 ottobre

D’altronde pochi giorni prima del voto, il 19 ottobre, il ministro italiano delle Politiche agricole, alimentari e forestali, Teresa Bellanova (Italia viva) aveva dichiarato la propria contrarietà a “fissare a priori una percentuale di risorse dei pagamenti diretti da destinare agli eco-schemi”, la misura di bandiera per garantire l’adeguamento della riforma al Green deal.

“Bellanova ha ben chiari gli interessi dei latifondisti e dell’agricoltura intensiva e industriale, molto meno quelli del Paese"Rossella Muroni - vicepresidente della Commissione ambiente

“Bellanova ha ben chiari gli interessi dei latifondisti e dell’agricoltura intensiva e industriale, molto meno quelli del Paese – ha dichiarato a lavialibera Rossella Muroni (Liberi e uguali), vicepresidente della Commissione ambiente –. Quello che trovo insopportabile è che l’Italia sarebbe il primo Paese ad avere interesse nel premere per un’agricoltura sostenibile di comunità. È la nostra tipicità e ci aiuterebbe a risolvere anche altri problemi come lo spopolamento delle aree interne e il contrasto al dissesto idrogeologico. Se a questo uniamo il fatto che in Italia da mesi la legge sul biologico è sepolta in Parlamento, il quadro è preoccupante”.

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Copa-Cogeca: la lobby europea dell’agrobusiness

Decisivo per arrivare a questo voto è stato anche il ruolo giocato da Copa-Cogeca, la lobby europea dell’agrobusiness. Nata negli anni ’60 dalla fusione di Copa (che rappresenta gli agricoltori) e Cogeca (per le cooperative), siede oggi a Bruxelles con i giganti dei pesticidi come Bayer-Monsanto e le multinazionali del cibo del calibro di Nestlé. Secondo il Registro europeo per la trasparenza delle attività di lobbying, nel 2018 avrebbe speso 2,5 milioni di euro per le proprie attività di pressione.

In particolare, la lobby non deve aver gradito l’approvazione, lo scorso 20 maggio, di due strategie fondamentali per l’attuazione del Green deal: Farm to fork (letteralmente “dalla fattoria alla forchetta”, ovvero dal produttore al consumatore) e Biodiversità. La prima prevede, entro il 2030, una drastica riduzione dell’uso di pesticidi (-50%), fertilizzanti (-20%) e sostanze antimicrobiche per gli animali da allevamento e l’acquacoltura (-50%), oltre ad assicurare il 25% dei terreni agricoli all’agricoltura biologica. La seconda la creazione di zone protette, così come il ripristino degli ecosistemi degradati.

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Grazie a una serie di richieste di accesso civico (Foia) rivolte alla Commissione europea, il Corporate Europe observatory è riuscito a ricostruire “l’enorme e privilegiato accesso alle istituzioni europee” garantito a questa lobby, talmente potente da essere ormai considerata un partner nella definizione delle politiche agricole comuni, come denunciato da un articolo pubblicato dal New York Times a dicembre 2019. Lo scorso febbraio, per esempio, invitò Frans Timmermans, il vicepresidente della Commissione con delega al Green deal, alla propria assemblea per lamentare come i limiti (poi approvati) all’uso dei pesticidi avrebbero danneggiato gli agricoltori. Non contenta, il 2 aprile chiese di posticipare causa covid l’adozione della Farm to fork, mentre chiedeva invece un’accelerazione sull’accordo Pac.

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Perché non possiamo più permetterci un’agricoltura intensiva

Secondo il rapporto Foraggiare la crisi pubblicato lo scorso settembre da Greenpace, gli allevamenti intensivi sarebbero responsabili del 17% delle emissioni di gas serra nell’Unione (10,3% secondo l’Istituto per le politiche ambientali europee, lo Ieep). Una cifra che supera quella di automobili e furgoni circolanti nel continente nel 2018. Emissioni che, invece di diminuire, sono aumentate del 6% tra il 2007 e il 2018, come se sulle strade europee ci fossero 8,4 milioni di auto in più.

Nel considerare l’impatto dell’agricoltura intensiva (dalla produzione del cibo alla sua distribuzione, fino agli sprechi alimentari) è necessario, infatti, tenere conto anche delle emissioni indirette di gas serra che derivano per esempio dalla produzione di mangimi, dalla deforestazione, così come dai cambiamenti nell’uso del suolo.

Secondo lo Iepp, i problemi ambientali legati al settore sono innumerevoli: inquinamento atmosferico, dei suoli e dei corsi d’acqua; danneggiamento della biodiversità; emissioni di gas serra. Come se non bastasse, la catastrofe climatica in corso è destinata ad abbattersi con forza proprio sul settore agricolo, uno dei più vulnerabili al cambiamento climatico.

Nelle mani di Ursula von der Leyen

Ora la discussione sul testo della Pac passa al negoziato finale tra le istituzioni europee: Commissione, Parlamento e Consiglio. Il 10 novembre sono iniziati i triloghi che dovrebbero portare entro i primi mesi del 2021 a un accordo definitivo. In linea teorica la Commissione potrebbe rigettare l’attuale testo, ma non è mai successo prima.

Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea da luglio 2019
Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea da luglio 2019

“La situazione è grigia: il Consiglio si è già pronunciato con una posizione peggiore di quella del Parlamento, l’Europarlamento ha optato per il voto peggiore di sempre, la terza istituzione che ci rimane è la Commissione che però ora sarà in forte difficoltà visto che di fatto risponde al Parlamento – riflette Di Simine –. Se la Von der Leyen aveva riposto tutta la sua credibilità sul Green deal, il messaggio che le è stato mandato è che il pacchetto verde lo teniamo per i romanzetti di appendice”.

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