Credits: Instagram, straBerry
Credits: Instagram, straBerry

Lavoratori migranti, sfruttatori italiani

Il caso della startup straBerry, accusata di aver sfruttato gli stranieri, non è isolato. Oltre la metà delle 260 inchieste avviate dal 2016 riguarda il Centro-nord

Rosita Rijtano

Rosita RijtanoRedattrice lavialibera

26 agosto 2020

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Era diventata un simbolo dell'agricoltura sostenibile e del ritorno dei giovani nei campi all'insegna dell'innovazione, tanto da aver ricevuto un doppio riconoscimento da Coldiretti, la principale associazione di categoria degli agricoltori. Ma oggi la startup straBerry, che raccoglieva fragole e frutti di bosco da vendere nelle piazze del centro di Milano a bordo di una colorata Apecar, è accusata di aver impiegato migranti extracomunitari in condizioni disumane e senza alcun rispetto delle norme anti-Covid.

Non è raro che gli imprenditori italiani sfruttino i lavoratori stranieri e non perché strozzati dalla grande distribuzione, ma per guadagnare di più Emilio Santoro - autore del Rapporto sul 2019 del laboratorio sullo sfruttamento lavorativo e la protezione delle sue vittime

La notizia ha fatto scalpore, eppure non si tratta di un episodio isolato. "Non è raro che gli imprenditori italiani sfruttino i lavoratori stranieri e non perché strozzati dalla grande distribuzione, ma per guadagnare di più", dice a lavialibera Emilio Santoro, docente di filosofia del diritto dell'università di Firenze e tra gli autori del Rapporto sul 2019 del laboratorio sullo sfruttamento lavorativo e la protezione delle sue vittime. Un report elaborato dal Centro di ricerca interuniversitario l'Altro Diritto insieme alla Flai Cgil che evidenzia come più della metà delle 260 inchieste avviate da 99 procure sullo sfruttamento dei lavoratori dopo l'approvazione della norma 199 del 2016, conosciuta come legge anticaporalato, non riguardi il Sud bensì il Centro-nord, dove ci sono 143 procedimenti. Tra le Regioni più colpite, oltre a Sicilia, Calabria e Puglia, ci sono Veneto e Lombardia. Le vittime sono per lo più stranieri, gli imprenditori italiani

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La storia di straBerry

Messa in piedi nel 2010 dal 31enne Guglielmo Stagno d’Alcontres, ex studente della Bocconi e discendente di una famiglia nobile, straBerry è riuscita a farsi strada grazie a spiccate capacità auto-promozionali e a slogan alla moda. "Agricoltura a chilometro zero", era la promessa della startup i cui campi si trovano "a 15 chilometri dal Duomo di Milano", come si legge sul sito dell'impresa. Nella zona di Cassina de’ Pecchi, periferia nordest del capoluogo lombardo, l'area produttiva di straBerry si compone di 25mila metri quadrati di serre in vetro riscaldate "nel rispetto dell'ambiente, utilizzando l'energia solare prodotta da panelli fotovoltaici che permettono un risparmio di emissioni di migliaia di tonnellate di anidride carbonica l'anno".

"L’energia prodotta in esubero viene ceduta garantendo l’approvvigionamento energetico a più di 4mila persone", ha dichiarato in un'intervista Stagno d’Alcontres.

Per provare la propria bontà l'azienda proponeva persino visite guidate in cascina per scuole e famiglie, dando la possibilità di raccogliere ortaggi e prendere in consegna uno degli spazi riservati agli "orti urbani" per mettere alla prova il proprio pollice verde. Dietro la patina confezionata per pubblico e media, però, la realtà era diversa, raccontano gli investigatori della Guardia di Finanzia. Le indagini parlano di turni massacranti: oltre nove ore di fatica per una paga oraria da 4,50 euro, molto al di sotto del minimo previsto dal contratto collettivo nazionale, fissato a 6,71 euro. Non c'erano spogliatoi né docce e in decine dovevano condividere un solo bagno chimico esterno. Chi provava a lamentarsi rischiava di essere cacciato o almeno allontanato per un paio di giorni dall'azienda. Prassi era l'assunzione in prova per due giorni senza alcun compenso, cui seguiva l'allontanamento senza una valida ragione. Una tattica che ha consentito ai responsabili dell'azienda di "ridurre i costi complessivi e sfruttare i giovani extracomunitari bisognosi di lavorare". Tutti i beni della società, del complessivo valore di sette milioni e mezzo di euro, sono stati sequestrati e sette persone (due amministratori, due sorveglianti, due impiegati amministrativi e il consulente dell’azienda che predisponeva le buste paga) sono state denunciate per il reato di intermediazione illecita e sfruttamento della manodopera. Mentre sarebbero stati più di cento i migranti sfruttati, provenienti per lo più dall'Africa subsahariana.

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Richiedenti asilo i più vulnerabili

I lavoratori stranieri non sono gli unici a essere vessati, ma "percentualmente ci sono più vittime tra di loro in quanto sono i più vulnerabili", conferma Santoro. Una vulnerabilità duplice, che non è legata solamente allo status giuridico ma alla mancanza di protezioni sociali. "Si tratta di persone che accettano lo sfruttamento perché non hanno alternative — prosegue lo studioso —. Non hanno una rete di solidarietà familiare e hanno reti di accesso ai diritti sociali molto più deboli e difficili, tanto che percepiscono lo sfruttatore quasi come un benefattore. Lo dimostra il fatto che nella quasi totalità delle inchieste monitorate, violenza e minaccia, che pure sono quasi sempre presenti, intervengono in un momento successivo rispetto all’instaurazione del rapporto di lavoro. Non vengono utilizzate per persuadere il lavoratore ad accettare particolari condizioni che altrimenti avrebbe rifiutato, ma di mezzi di cui ci si avvale per mettere a tacere eventuali rivendicazioni delle vittime quando, ad esempio, non viene loro corrisposta neanche la bassissima retribuzione promessa". Da attenzionare, in modo particolare, è la situazione dei richiedenti asilo che "non hanno altra prospettiva se non l'accoglienza e una minima base di sostentamento, e sembrano essere diventati la categoria più vulnerabile allo sfruttamento lavorativo e sessuale. Un trend rilevato anche a livello internazionale dall'agenzia Onu che si occupa di criminalità organizzata (Unodc)".

Da attenzionare è la situazione dei richiedenti asilo che "non hanno altra prospettiva se non l'accoglienza e una minima base di sostentamento. Sembrano essere diventati la categoria più vulnerabile allo sfruttamento lavorativo e sessuale"

Non a caso i reclutatori di straBerry assoldavano personale anche nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas). Lo stesso facevano i responsabili di 14 aziende agricole in Basilicata e Calabria, dal valore stimato di quasi 8 milioni di euro, che sono state sequestrate lo scorso giugno. Qui oltre 200 migranti, tra pakistani e africani, erano trattati da schiavi: pagati 80 centesimi a cassetta di agrumi o 10 euro al giorno e ospitati in locali fatiscenti, sporchi e senza riscaldamento. Gli veniva data da bere l'acqua dei canali e molti di loro dormivano a terra. Le intercettazioni sono terribili: "Dove sono le scimmie?", chiedeva uno degli imprenditori, protestando perché la manodopera non era ancora arrivata."Domani mattina là ci vogliono le scimmie", diceva un altro, "e facciamo venire scimmie, così cerchiamo di finire", rispondeva il caporale dall’altra parte del telefono.

Uguale scenario tra Firenze, Prato, Pistoia, dove almeno un’ottantina di migranti sono stati sfruttati per la distribuzione porta a porta di volantini pubblicitari. La paga non superava i tre euro l’ora, quando ne sarebbero previsti almeno sei, oltre ai contributi e alle assicurazioni. I lavoratori passavano non meno di dieci ore trascinando un carrellino carico di depliant, sotto il sole o la pioggia, costantemente controllati anche con dei rilevatori satellitari. E se i caporali erano migranti anch'essi, al vertice della giungla di ditte subappaltatrici — cui le grandi catene dell’elettronica o dell’alimentare (estranee all’inchiesta) affidavano il lavoro — c'era la Antares srl che aveva come responsabile di magazzino Rosa Riccarda Ciochino, 62 anni, l'unica italiana coinvolta nell'inchiesta e finita ai domiciliari. Ciochino, stando a quanto scrive il giudice per le indagini preliminari, era una delle menti e svolgeva "un ruolo essenziale nell’organizzazione del lavoro, gestendo da remoto la suddivisione in zone da sottoporre a volantinaggio, nonché monitorando lo svolgimento dell’attività lavorativa". 

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Il flop della regolarizzazione 

Per quanto riguarda i settori economici coinvolti, 97 vicende riguardano comparti produttivi prevalenti nel Centro e nel Nord: il manifatturiero, la lavorazione dei tessuti, l’allevamento, la pesca, la lavorazione delle carni, il volantinaggio e l’edilizia. Ma il settore maggiormente rappresentato rimane l’agricoltura, con 163 procedimenti. E ci sono zone, al Nord come al Sud, dove lo sfruttamento è diventato endemico. Un esempio è Saluzzo, in Piemonte, dove gli stagionali che sono arrivati lo scorso giugno hanno trovato centri di accoglienza chiusi per via delle norme anti-Covid e tanti sono stati costretti a dormire in strada. Un altro è l'Agro Pontino, nel Lazio. Qui qualche giorno fa Amrinder Singh, un indiano di 32 anni che lavorava nelle campagne pontine per AgriLatina — una delle aziende a produzione biodinamica e a chilometro zero più importanti d’Italia— è caduto ed è stato abbandonato nelle campagne dai datori di lavoro che avrebbero dovuto portarlo in ospedale. I compagni di lavoro, racconta Marco Omizzolo su Il Manifesto, hanno organizzato una protesta.

Nelle campagne si sperava in un parziale miglioramento della situazione grazie alla regolarizzazione di colf e braccianti, inserita a fatica nel decreto Rilancio, e voluta soprattutto dalla ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova. Ma i numeri presentati sono stati deludenti: le domande ricevute dal portale del ministero dell’Interno sono state 207.542. In prevalenza si tratta di colf e badanti (85 per cento), mentre il resto riguarda gli stagionali impiegati nelle campagne. "La norma avrebbe dovuto essere affiancata dall'emanazione del decreto interministeriale sugli arretrati fiscali, previdenziali e retributivi da parte del ministero del Lavoro. Un decreto che non è mai stato emanato, determinando la reticenza di molti datori di lavoro — spiega a lavialibera Jean-René Bilongo, sindacalista della Flai-Cgil —. Senza sapere quanto sarebbe costato presentare l’istanza di emersione, in tanti hanno temuto un’eventuale stangata e hanno scelto di continuare a impiegare in nero i dipendenti sprovvisti del permesso di soggiorno".

Un probabile stratagemma, secondo Bilongo, è stato quello di regolarizzare i lavoratori agricoli spacciandoli come addetti al sostegno familiare o alla cura alla persona. "Il motivo è da ricercare nei costi che ne derivano: per la categoria cosiddetta di colf e badanti, anche senza decreto, è facile ipotizzarli — prosegue il sindacalista —. Dall’altra parte, la struttura stessa del modulo digitale di emersione è risultata monca. La pretesa era quella d’indicare sia il fatturato dell’impresa sia il reddito tenendo conto che la capacità reddituale richiesta per chi regolarizzava era di trentamila euro. Ai nostri sportelli, si sono rivolte numerose aziende con fatturati ragguardevoli, ma con redditi non congrui. È solo un esempio delle incongruenze che hanno paralizzato la regolarizzazione, chiaramente osteggiata dal Movimento cinque stelle. Poi a molti conviene continuare a operare in una sorta di mondo di sotto i cui pilastri sono lo sfruttamento, il caporalato. E i controlli non sono all’altezza della situazione".

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