Una scena del film di Franco Maresco, "La mafia non è più quella di una volta"
Una scena del film di Franco Maresco, "La mafia non è più quella di una volta"

Tra selfie e neomelodici, ha ragione Maresco: "La mafia non è più quella di una volta"

Tra le immagini sui social network e "personal branding" Cosa nostra ha il sapore glamour di un'impresa commerciale globalizzata. Per questo il film del regista siciliano inquadra una situazione reale

Marcello Ravveduto

Marcello RavvedutoDocente alle Università di Salerno e di Modena e Reggio Emilia

Aggiornato il giorno 29 settembre 2020

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Il film è terminato. Il pubblico sta uscendo. Su una metà dello schermo passano i titoli di coda, sull’altra si susseguono interviste a trentenni e quarantenni della borghesia palermitana interpellati sulla trattativa Stato-mafia, sul 23 maggio e sul 19 luglio 1992. Tra battute, risate, obiezioni e rilievi autobiografici si arriva alla resa dei conti finale con un "Non ricordo" o con un "Non lo so, non lo so davvero". Il film – Belluscone di Franco Maresco – dimostra quanto sul recente passato e sul lutto delle stragi sia calato un oblio perfetto: delle cose, della storia e soprattutto del ruolo che quella stessa borghesia aveva assunto nel 1992. Le interviste rappresentano il rumore di sottofondo della smobilitazione; la mutilazione della memoria con il rasoio dell’indifferenza: mafia e antimafia sembrano indistinguibili nell’universo mediale.

Nel febbraio 2019, in preparazione del nuovo film, Maresco osserva: "La mafia di cui parlava Sciascia […] si appiattiva, andava perdendo quell’aura – per fortuna, dirai – quella grandiosità che veniva raccontata nei suoi romanzi o nei film tratti dai suoi libri. Oggi le microspie che registrano le parole dei mafiosi, le registrazioni che carabinieri e polizia diffondono su Youtube, hanno contribuito a cancellare quella cosiddetta grandiosità, quel mistero di Cosa nostra, in quanto società segreta, che un tempo era ancora vivo. Perché non si sapeva bene cosa fosse, sapevamo che era la tragedia delle tragedie, ma sapevamo che aveva una sua ritualità, che non si vedeva, che era nascosta. Era un qualcosa che, pur nel male, aveva una sua grandiosità, ed è stata ormai derubricata, è stata ridimensionata e portata alla banalità del male. […] E quindi, in quella perdita di senso di cui parlavo prima, si precipitava nella spettacolarizzazione, che è quel che poi è diventata la mafia. La mafia è dentro il confine dello spettacolo […]: la mafia e l’antimafia si risolvono all’interno delle fiction televisive. E sicuramente non rappresentano più posizioni precise, nette, che si distinguono dallo spettacolo, da ciò che – fra virgolette – non dovrebbe essere, perché è rappresentazione. Non incide più, non è più nulla, è solo spettacolo. […] Anche il Male ha una sua grandiosità, mentre la mafia oggi è soltanto quello che produce Valsecchi con le sue serie TV".

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È ciò che vediamo ne La mafia non è più quella di una volta in cui le differenze sono del tutto azzerate da uno spettacolo senza fine. Maresco riparte, cinque anni dopo, dal protagonista di Belluscone. Ciccio Mira, manager musicale, ha ottenuto un finanziamento per organizzare un concerto commemorativo di cantanti neomelodici al quartiere Zen di Palermo per il venticinquesimo anniversario degli attentati di Capaci e via D’Amelio. Nonostante lo striscione inneggi alla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nessuno dei partecipanti pronuncia parole di condanna pubblica contro Cosa nostra. Un silenzio mortificante a cui fa da contraltare la presenza di Letizia Battaglia, fotografa della mafia. E qui è possibile cogliere un primo scambio tra realtà e finzione. In una intercettazione ambientale del 2017, le forze di polizia hanno ascoltato un padre che vieta alla figlia di partecipare all’anniversario per la strage di via D’Amelio dicendole: "Tu non ci vai, non ci pensare nemmeno; io sono per il crimine!". Paradossalmente il mafioso dimostra un’onestà intellettuale maggiore del “pentito” Ciccio Mira. Andando in giro per la città, Maresco incontra, infatti, un popolo infastidito dal continuo richiamo alla giustizia, un popolo che ha rimosso il lutto per lo spargimento di sangue, che non crede più nei paladini della legge e neanche all’apparizione in sonno a Cristian Miscel – giovane cantante neomelodico con disturbi psichici – di Falcone e Borsellino che, come santi, lo hanno salvato da un incidente automobilistico indicandogli la via del successo.

Il genere neomelodico è un vero proprio “totem culturale” che rappresenta lo scambio continuo tra realtà e immaginario. Un modo interreale in cui la mafia si tramuta in un luogo della memoria fatto di onore, omertà e disvalori che diventano valori. Un mondo che si riassume nella linea biografica dei cantanti dal grande seguito locale (ovvero di quel popolo irritato dal politically correct dell’antimafia), divenuti esponenti reali di una rappresentazione mitica del vissuto criminale. È il caso di Niko Pandetta che racconta orgogliosamente di essere il nipote di Salvatore “Turi” Cappello, potente boss della mafia catanese, e che senza remore (a differenza di Ciccio Mira adeguatosi alla retorica dell’antimafia) dice, sapendo di avere un pubblico, che Falcone e Borsellino se la sono cercata (come disse Giulio Andreotti di Giorgio Ambrosoli) salvo poi scusarsi con un post su Facebook.

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Del resto i social network sono l’ambiente in cui si riverbera l’auto-rappresentazione della mafia: sempre meno Cosa nostra, sempre più brand internazionale. Basta ricordare il caso di Domenico Palazzotto, arrestato nel 2014, come esempio dell’orientamento al networking delle nuove generazioni di mafiosi. Rampolli e non solo, come i ragazzi del clan di Barcellona Pozzo di Gotto (2015), che giocano a fare i padrini parafrasando le battute delle fiction e caricando immagini o video con commenti espliciti. Utilizzano un linguaggio gergale (in cui sono centrali le emoji) con prese di posizione reali e pubbliche: richieste di affiliazione, minacce alle forze di polizia, sfide ad avversari e nemici, incuranza delle intercettazioni, accettazione del carcere come rito di passaggio. Se “la belva” (Totò Riina) vestiva con la stessa giacca e la stessa maglia dolce vita per settimane, relegando il lusso ad alcuni aspetti della vita privata, e se ’U binnu (Bernardo Provenzano) aveva rinunciato a tutto per mantenere un profilo basso al punto da vivere come il più misero dei pecorari, questi usano la convergenza mediale di Instagram e Facebook per mostrarsi in pose epicuree: cibi raffinati, abiti di marca, auto esclusive, imbarcazioni da sogno.

Ma se guardiamo oltre il luccichio delle apparenze, possiamo notare che gli assetti antropologici di riferimento svelano l’esistenza di una cultura criminale di lungo periodo: la religione, l’omofobia, la misoginia, i codici d’onore, l’allusione minacciosa come metafore cognitive. Le auto-rappresentazioni cambiano nella forma, non nelle intenzioni: muta la fisionomia del corpo non la struttura del dna. Il totalitarismo territoriale e il fondamentalismo culturale permangono come piloni di sostegno dell’organizzazione e della mentalità mafiosa. Ma ancora una volta realtà e finzione si confondono e si alternano. Infatti le immagini delle intercettazioni ambientali, che hanno svelato il tentativo di ricostituzione delle Cupola mafiosa (2018), sembrano trasportarci dentro un film in cui è tutto un revival di codici, un continuo richiamarsi alle regole e alla necessità di ribadire dei ruoli con dialoghi che sembrano presi dai mafia movie. Insomma, pare che i mafiosi nell’auto-rappresentarsi provino a riesumare un immaginario di Cosa nostra che non c’è più. Una sorta di retrotopia della mafia, cioè la nostalgia per un sistema di potere che un tempo «la terra faceva tremare» e che invece oggi, tra selfie e personal branding (la promozione della propria immagine, ndr), ha il sapore glamour di un’impresa commerciale globalizzata. È proprio vero che La mafia non è più quella di una volta.

Da lavialibera n° 1 gennaio/febbraio 2020

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