La mia fiducia nelle istituzioni sfidata da due sentenze

La Cassazione su "Mafia Capitale" e la Consulta sui permessi premio ai boss mettono in allarme. C'è una ciclica difficoltà a riconoscere la mafia: è già successo in Sicilia e in Lombardia, adesso anche a Roma

Rosy Bindi

Rosy BindiEx ministra della Salute, presidente Commissione antimafia nella XVII legislatura

30 gennaio 2020

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Lo confesso: nonostante sia stata formata al rigoroso rispetto delle decisioni della magistratura e soprattutto della Suprema corte, negli ultimi tempi ho rischiato di vacillare di fronte a due sentenze. Quella della Cassazione, che non ha riconosciuto il reato di mafia al sodalizio di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, e quella della Corte costituzionale, che ha ritenuto contrario ai principi della Carta negare permessi premio al detenuto condannato all’ergastolo per il reato di associazione mafiosa, anche se questi non collabora con la giustizia. Siamo ancora in attesa delle motivazioni della sentenza su Mafia capitale, che leggerò con attenzione, tuttavia non potrò rinnegare il lavoro, svolto in rigorosa autonomia rispetto alla procura di Roma, della Commissione parlamentare antimafia che ho avuto l’onore di presiedere nella XVII legislatura.

L’inchiesta della Commissione era arrivata a conclusioni non dissimili. Nel sodalizio tra Massimo Carminati – capace di esercitare un forte potere intimidatorio, legato alla banda della Magliana e appartenente ai Nar (Nuclei armati rivoluzionari), organizzazione terrorista di estrema destra – e Salvatore Buzzi – responsabile di una rete di cooperative sociali, in grado di corrompere grazie a relazioni trasversali con il potere politico e amministrativo della Capitale – avevamo riconosciuto i tratti caratteristici del metodo mafioso. Intimidazione, corruzione, relazioni con il potere, controllo del territorio attraverso la gestione di servizi pubblici e sociali come l’accoglienza dei migranti.

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Se la magistratura ha bisogno di prove, a noi sono sufficienti gli indizi per rafforzare la vigilanza, per denunciare il malaffare, per sentirci responsabili della tenuta dei principi di legalità

Se è vera l’affermazione "se tutto è mafia niente è mafia", è altrettanto fondata la preoccupazione su una ciclica difficoltà a riconoscere ciò che è mafia. La mafia non esisteva in Sicilia neppure agli inizi del ’900, non esisteva in Lombardia fino al processo Crimine-Infinito e non viene riconosciuta come tale una piccola mafia "originaria e originale" a Roma. In una Roma, non lo si dimentichi, considerata uno dei mercati di spaccio di droga più grandi del mondo (leggi l'analisi di Carlo Bonini dal secondo numero, Consumi stupefacenti), il cui centro storico ha subìto una trasformazione commerciale senza uguali e nella quale sono stati confiscati ingenti beni a tutte le organizzazioni mafiose storiche, del cui territorio fa parte quella Ostia in cui spadroneggiavano gli Spada e i Fasciani. Non faremo l’errore di non riconoscere la differenza tra ciò che la Cassazione ha definito mafia e ciò che ha definito corruzione, purché non si abbandoni la consapevolezza che, se la magistratura ha bisogno di prove, a noi sono sufficienti gli indizi per rafforzare la vigilanza, per denunciare il malaffare, per sentirci responsabili della tenuta dei principi di legalità.

Anche la sentenza della Corte costituzionale sull’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, primo comma, dell’ordinamento penitenziario, che impedisce di concedere permessi premio ai mafiosi condannati all’ergastolo ha messo a dura prova la mia fede nelle istituzioni! "Il detenuto per un reato di associazione mafiosa e/o di contesto mafioso può essere premiato se collabora con la giustizia, ma non può essere punito ulteriormente negandogli benefici riconosciuti a tutti, se non collabora". Con questa motivazione la Consulta afferma che la mancata collaborazione con la giustizia non può essere considerata l’unica e assoluta prova del persistente rapporto con l’organizzazione mafiosa. La Corte costituzionale può certo smentire Tommaso Buscetta, che confidò a Giovanni Falcone che dalla mafia si esce soltanto con la morte o con la collaborazione con la giustizia, purché a questa sua pronuncia seguano criteri non meno oggettivi per individuare la rottura del legame tra il detenuto e l’organizzazione mafiosa. Non sarà facile e tutte le istituzioni preposte alla lotta alla mafia dovranno fare la loro parte.

Dovrà sempre essere chiaro, tuttavia, che un detenuto per mafia inizia il suo riscatto solo quando ha davvero rotto ogni rapporto con l’organizzazione criminale a cui apparteneva

Il Parlamento, certo, ma anche la Direzione nazionale antimafia e il Consiglio superiore della magistratura dovranno almeno offrire rigorosi criteri di metodo per orientare le valutazioni della magistratura di sorveglianza. La funzione rieducativa della pena sancita dalla nostra Costituzione è un principio fondamentale al quale non si dovrà mai rinunciare neppure per combattere le mafie. Dovrà sempre essere chiaro, tuttavia, che un detenuto per mafia inizia il suo riscatto solo quando ha davvero rotto ogni rapporto con l’organizzazione criminale a cui apparteneva. Nessuna valutazione soggettiva sul singolo detenuto sarà possibile senza questo presupposto oggettivo. Il nostro Paese, pagando un prezzo altissimo, ha conosciuto la mafia, l’ha chiamata per nome, ne ha capito la forza, la capacità di penetrazione e condizionamento della società, ha imparato a combatterla. Non può permettersi passi indietro o battute d’arresto.

Da lavialibera n° 1 gennaio/febbraio 2020

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